Berlusconi, il campionato e il mondo un po’ più in là- l’Unità 20.01.03

Berlusconi, il campionato e il mondo un po’ più in là- l’Unità 20.01.03

Gennaio 20, 2003 2001-2010 0

In Chiapas la guerra continua, contrariamente alle dichiarazioni del governo messicano e malgrado il disinteresse dei mezzi di comunicazione.
Per le comunità indigene che insistono nel rivendicare il rispetto della propria cultura e dignità, questo significa continue provocazioni, minacce ed aggressioni da parte dei paramilitari (armati e protetti dell’esercito) che prosperano nel clima di divisione creato dagli «aiuti» elargiti a chi accetta di vendersi ai progetti di ristrutturazione neoliberista elaborati negli Usa (piano Puebla-Panama) e fatti propri dal presidente messicano Fox. Scopo di questa azione combinata tra paramilitari e corruzione è impedire che le comunità indigene in resistenza possano migliorare le proprie condizioni di vita dimostrando così che la lotta paga: collocata in una zona strategica come poche, tra i milioni di immigrati sudamericani negli Usa ed i milioni di poveri senza speranza dell’America latina, la lotta che stanno conducendo le comunità zapatiste del Chiapas è molto più di uno dei tanti fronti della lotta antiliberista con cui solidarizzare.
Per questo è importante che la solidarietà al movimento zapatista aumenti concretamente il potenziale economico delle comunità, e quindi della reale capacità dei singoli a resistere alla corruzione dei programmi governativi. (Fare diversamente significa sfruttare la lotta delle comunità zapatiste per usarla, naturalmente svuotata di contenuto, in termini di immagine sul palcoscenico della politica italiana).
Concretamente, trattandosi di comunità di produttori di caffè (arabica di altura, e cioè del migliore che si possa trovare), tutto questo significa aprire il commercio equo-solidale alle cooperative “basi di appoggio” zapatiste che sinora hanno potuto vendere la propria produzione solo nel mercato tradizionale interno all’astronomica cifra di 0.5-0.6 Euro/Kg. Non c’è dubbio che i 17.000 Kg di caffè oro (ancora da tostare) di un solo container sono, una quantità enorme se li consideriamo tutti insieme. Ma se li dividiamo per 102 (le province italiane) si riducono a 133 Kg di caffè tostato per ognuna, il che significa 13 gruppi di acquisto che comprano 10 Kg con un resto di 3.
Raggiungere quantità significative (e quindi non simboliche) è possibile. A condizione di passare dalle molte, a volte troppe parole, ai fatti. Dai grandi progetti che mai si realizzano perché dipendono dalle decisioni di persone ed organizzazioni che hanno altre priorità, alle piccole azioni concrete che dipendono solo da noi stessi. Come, per l’appunto organizzare un gruppo di acquisto tra amici e conoscenti contando sul “supporto logistico” offerto da Comalt (Commercio Alternativo Soc. Coop. di Ferrara con la rete di “Botteghe” sparse in tutta Italia) in collaborazione con Nemi Zapata.
Se poi consideriamo che ad ogni provincia corrisponde, ad esempio, una federazione di Rifondazione comunista, che è il partito politico italiano che in tante occasioni ha manifestato la sua “solidarietà”, non c’è dubbio che tra il consumo “interno” delle feste di Liberazione e quanto si può vendere durante le stesse, più le federazioni del PCdI con relative feste di Rinascita, non c’è dubbio che sarebbero possibili più container. Sempre che ci sia la volontà politica.
Non esistono diritti di “esclusiva” sul movimento zapatista. Sarebbe molto grave se qualcuno pensasse di escludere le altre forze politiche o si chiamasse fuori da un possibile impegno concreto solo perché se ne stanno interessando anche altri: magari tutte le forze della sinistra italiana decidessero di partecipare attivamente a questa campagna.
Centro S. Allende – La Spezia

I l nostro villaggio globale, scrive Andrés Ortega su El Paìs, propone molte sorprese all’osservatore occidentale. Fatto uguale a 100 il numero dei suoi abitanti, sulla terra circolano 57 asiatici, 21 europei, 14 americani e 8 africani (un popolo o una razza in via di estinzione? Loro sono già pochi, l’Aids e la fame infuriano soprattutto laggiù!). Le donne sarebbero 52, gli uomini 48. I cristiani sarebbero 30, i non cristiani 30, gli omosessuali 11 (un numero davvero molto grande soprattutto per chi è abituato o costretto a rimuoverne la presenza). Sei di queste persone, nate tutte negli Stati Uniti, avrebbero nelle loro mani il 59% di tutte le ricchezze che circolano nel villaggio. Ottanta di esse (cioè i quattro quinti della popolazione globale del pianeta) vivrebbero in alloggi insufficienti o inadatti, 70 sarebbero analfabeti e 50
(la metà!) soffrirebbero di malnutrizione. Uno solo dei cento avrebbe a sua disposizione un computer. Ottanta su cento (ancora una volta, i quattro quinti dell’intera umanità) incontrerebbero nel corso della loro vita le sofferenze legate alla guerra, al carcere, alle torture o alla fame mentre solo otto su cento
sarebbero i privilegiati con un conto in banca o una disponibilità di contanti.
Tutte le persone che avessero la possibilità di trovare cibo nel frigorifero, una casa e dei vestiti adeguati ai loro bisogni, infine, entrerebbero trionfalmente nel 25% dei più ricchi del villaggio.
Ho voluto partire da qui, da questa descrizione del nostro «villaggio globale» per rispondere alla lettera che viene dal Chiapas perché quella di cui abbiamo bisogno per ragionare su un problema come quello della rivolta contadina in una zona lontanissima è la capacità di allontanarci dai problemi nostri. Da Berlusconi e dal campionato di calcio, dalle dissertazioni degli economisti e dei politici sulle pensioni da riformare subito o nel 2004, dalla legge Cirami e dalle esternazioni di Castelli sulla necessità di depenalizzare la xenofobia. Salendo su un piccolo satellite e guardando solo da lì a quello che accade nel
mondo osservato nel suo complesso.
Globalizzazione delle economie e mondializzazione delle guerre con le portaerei statunitensi e inglesi (l’Europa come soggetto politico esiste ancora?) già pronte a colpire l’Iraq nel Golfo Persico chiedono di fare sempre più spesso questo tipo di esercizio ma l’abitudine antica dei romani e degli italiani a sentirsi ombelico del mondo è così forte da avere ancora troppo spesso ragione dei proponimenti e delle decisioni. Influenzando perfino le scelte che si fanno dichiarando le proprie simpatie in tema di rapporto con i contadini del Chiapas. Come risulta chiaro perfino laggiù dove ci si rende conto fin troppo bene del fatto per cui oggi in molti in Italia, anche a sinistra, preferiscono non parlare del comandante Marcos e del Chiapas perché parlarne potrebbe esporli all’accusa di essere troppo (ancora) rivoluzionari (o comunisti) e, sotto sotto, antiamericani. E perché molti altri ne parlano un po’ troppo invece (o troppo accoratamente e polemicamente) per segnalare che loro mantengono vivo, puro e forte, il loro sogno rivoluzionario e percepiscono il valore politico immediato di un atteggiamento che ribadisce con forza, anche nei confronti del Messico e del Chiapas, il loro no fermo al modo inaccettabile, violento e, alla fine, contraddittorio in cui gli Stati Uniti propongono (o impongono) e l’Occidente accetta l’idea di una pax che può e deve essere soltanto «americana».
Guardiamo dal satellite, dunque, e chiediamoci che cosa significa, nel mondo di oggi, una situazione come quella del Chiapas. Definendola, da subito, come una zona in cui quello che si è verificato è un movimento di ribellione, radicale ma sostanzialmente non violento (non basato, voglio dire, sulla guerriglia e sul terrorismo), rivolto essenzialmente contro un governo che non riesce a farsi carico del problema delle disuguaglianze e che accetta, sostanzialmente, (a) l’idea per cui lo sviluppo di un paese dipende dalla sua produttività complessiva più che dalla sua capacità di distribuire ricchezza, (b) l’idea per
cui le richieste di distribuire la ricchezza vanno considerate pericolose e, dunque, «eversive» quando potrebbero entrare in contrasto con la capacità globale di produrre, e (c) l’idea per cui la capacità globale di produrre dipende soprattutto dalla capacità di mantenere dei buoni rapporti o dei rapporti comunque non troppo tesi con il potente vicino americano. Muovendosi, alla fine, su linee molto simili a quelle dei
governi conservatori europei. Con due aggravanti significative, però: perché il Messico non è, economicamente parlando, un paese libero collegato con altri paesi liberi all’interno di un mercato comune che lo vincola e lo difende ma un paese satellite di un altro molto più potente di lui e perché le condizioni di povertà definite da una distribuzione ineguale della ricchezza sono molto più evidenti e più gravi in Messico e in tutta l’America Latina che qui da noi in Europa. Dando luogo lì ad un sentimento diffuso di ingiustizia ed al bisogno di difendere dei diritti elementari della gente capace di creare le condizioni di una vera instabilità sociale.
Chi governa non può basarsi, lì, solo sulla stampa amica e compiacente. Deve mettere e tenere in moto anche una macchina capace di minacciare o di scatenare una repressione armata. Favorendo l’azione delle bande paramilitari, magari, e riservandosi di intervenire più tardi, travestito da arbitro, nel momento in cui il conflitto dovesse diventare troppo forte. Vale la pena di riflettere con attenzione su questo insieme di circostanze. Per la sua antica tradizione rivoluzionaria (la rivoluzione messicana, quella di Pancho Villa e di Emiliano Zapata precede di alcuni anni quella russa di Lenin e dei bolscevichi) il Messico è un luogo in cui uscire da una condizione di indigenza e di emarginazione estrema vuol dire aprirsi, con una certa facilità, ad una serie di richieste di grande valore politico e sociale capaci di evitare le trappole dell’esasperazione e del terrorismo. E capaci di suscitare, cioè, una mobilitazione ampia delle coscienze facendo balenare
l’ipotesi (come, trent’anni or sono, nel Cile di Salvador Allende) di una rivoluzione non violenta. Se questo tipo di spinte dovesse realizzare dei cambiamenti reali da questo punto di vista (sul piano della politica, cioè, e del sociale) un risultato di questo tipo, però, potrebbe essere percepito come un segnale forte da tutti i popoli dell’America Latina (cosa che fa paura soprattutto agli americani che se ne considerano
i padroni) e, nel villaggio globale dell’informazione, a tutti i paesi poveri: creando problemi anche agli altri «grandi» dell’occidente. Quella che potrebbe mettersi in moto su questa strada, voglio dire, è l’enorme maggioranza (il 75%) di persone che vivono in una condizione (ingiusta) di sofferenza e di privazione nel nostro villaggio globale.
Accorto politicamente, non violento e radicale nei contenuti, il messaggio che viene dal Chiapas è, per questo solo motivo, un messaggio da oscurare.

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