Chi sa amare sa anche dire: stai sbagliando- l’Unità10.03.03
Cara Unità,
in questi ultimi tempi, moltissimi hanno seguito le manifestazioni per la pace in tutto il mondo. L’impressione mia che ho avuto è che la gran parte non sono antiamericane, ma è l’atteggiamento del presidente George Bush che non condividono.
Ho troppo rispetto per la persona umana per presentarla in negativo, ma George Bush a mio parere ha poca dimestichezza con la diplomazia. Noto in lui un comportamento scomposto, alle volte furioso, «in un crescendo delirante». Agiremo con la forza e vinceremo. Per dare maggior credibilità alle sue parole giorni fa si è avvolto in un giubbotto antiproiettile e contro il suo antagonista Saddam Hussein ha ripetuto il suo odio e sprezzo. Pronta la risposta del dittatore Saddam Hussein: agli aggressori del mio paese faremo tabula rasa!
Per noi inermi cittadini sembra quasi una maledizione che a periodi di tempo spunti sempre all’orizzonte uno o più satanassi, da qualsiasi parte del mondo provengono. Neppure le suppliche del Papa servono più, che sembra invitare i contendenti: Se siete senza peccato scagliate la prima pietra!
I nostri pensieri, come si dice sempre in questi casi: «Speriamo in un futuro migliore», ma quale futuro? Se dopo la seconda guerra mondiale non c’è più stata guerra o guerriglia senza torture dopo Auschwitz? Se abbiamo dimenticato la nostra umanità, l’amore e il rispetto dovuto al prossimo!
La saluto cordialmente e grazie per la sua attenzione.
Oreste Moretti, Treviso
Ha cominciato Giuliano Ferrara, ai tempi della prima guerra del Golfo, a definire antiamericani quelli che criticavano la decisione di Bush padre nel momento in cui decise di entrare in guerra contro l’Iraq. Vi fu un dibattito, allora, cui partecipai di persona, fra esponenti della redazione de l’Unità e il conduttore di
Radio Londra in cui cercavamo insieme (c’erano Sansonetti e Foa e molti altri) di spiegare perché non eravamo d’accordo con l’idea di un intervento militare. Sbuffando e gonfiandosi tutto, Ferrara ci diede,
appunto, degli antiamericani e di questo epiteto mi è rimasto un ricordo particolarmente sgradevole.
Perché non sono e non mi sento affatto antiamericano come antiamericano non era e non si sentiva
nessuno di noi allora. E perché, tuttavia, quel modo di argomentare aveva una sua rozza efficacia, una
capacità di distogliere l’ascoltatore dalle questioni di merito e di rendere sgradevole, “sinistra”, la posizione di chi cercava di continuare a proporne l’importanza.
Dal punto di vista logico, in effetti, gli attacchi a chi parla di pace basati sull’accusa di antiamericanismo
non stanno in piedi. L’opinione pubblica americana è divisa come lo è la nostra sull’intervento voluto
da Bush e undici anni fa il primo Bush non fu rieletto, dagli americani, proprio in ragione di un intervento che non aveva avuto l’effetto da lui sperato.
Prendere posizione pro o contro l’intervento di Bush figlio in Iraq oggi non può significare in alcun modo, dunque, essere contro o per l’America. Significa solo proporre una opinione, largamente condivisa comunque da un numero enorme di americani. Andando un po più in là si potrebbe dire che si vuol bene all’America e alla sua immagine nel mondo proprio consigliandola ad evitare un uso unilaterale della forza. L’idea del gigante che definisce “canaglia” e schiaccia sotto il suo tallone un paese canaglia sostanzialmente non in grado di opporre una resistenza apprezzabile assumendone poi il controllo politico, militare ed economico è un’idea difficile da amare.
In America Latina o in Giappone, nelle Filippine o in Africa, oltre che nel mondo islamico, la lettura che viene già data e che verrà data in seguito di questa guerra è quella di una guerra coloniale che prolunga, nel nuovo millennio, tendenze e abitudini legate all’imperialismo occidentale. L’isolamento degli Stati Uniti d’America avrà il suo prezzo inevitabilmente e chi vuol bene agli americani ha il dovere di dirlo proprio se ad essi si sente legato da un sentimento di amicizia e di rispetto. L’amico vero non è quello
che ti dà sempre ragione è quello capace di contrastarti nel momento in cui pensa che tu sbagli.
Se tutto questo è vero e in fondo semplice, il problema è quello del perché l’accusa di essere antiamericani lanciata da Ferrara e da tanti altri ha ancora oggi la sua efficacia.
Un problema che va affrontato, secondo me, tenendo conto del modo in cui cultura e linguaggio politico si stanno modificando, in questi anni, in rapporto ad una modificazione epocale degli strumenti utilizzati per la comunicazione fra esseri umani.
I tecnici della comunicazione hanno osservato da molto tempo che i messaggi veicolati da ogni comunicazione umana sono sempre almeno due. Uno di essi riguarda il contenuto, l’altro la relazione. Se io incontro una persona e le chiedo come sta, per esempio, propongo insieme la mia curiosità per la sua salute e il mio interesse per lei, se spiego qualcosa ad un altro gli do insieme delle informazioni e una
prova del fatto che posso e voglio spiegargli qualcosa. Che il mio interesse o la mia disponibilità siano
naturali ed accettabili o spocchiosi e sgradevoli dipende, in concreto, dal modo in cui io mi pongo, dall’insieme delle comunicazioni non verbali che accompagnano e “qualificano” le mie parole. La reazione dell’altro dipende spesso da questo piuttosto che dal contenuto verbale del mio discorso. Alla domanda
“come stai?” si può reagire, infatti, con simpatia o con fastidio, con freddezza o con calma. All’offerta di aiuto si può reagire dicendo grazie o offendendosi, sentendo vicinanza ed affetto o ironia ed irrisione.
Dobbiamo ragionare proprio su questo punto, sulla particolare sensibilità degli esseri umani al messaggio di relazione, se vogliamo capire quali sono le condizioni in cui uno slogan di per sé illogico, quello basato sull’idea per cui esprimere un’opinione critica sul comportamento di qualcuno significa essere contro di lui, diventa così efficace.
Due sono le condizioni infatti in cui, secondo i tecnici della comunicazione, la prevalenza dei messaggi di relazione diventa schiacciante. La prima di queste condizioni riguarda il clima. Più alta è la temperatura emotiva di un dialogo, meno facile è lo scambio delle informazione di contenuto, più forte diventa la tendenza a farsi influenzare dal messaggio di relazione. Discussioni sulla pace o sulla guerra, passione politica o tifo calcistico, scontri d’amore e difficoltà gravi nelle relazioni interpersonali espongono inevitabilmente chi le sostiene o le subisce a schierarsi e ad interpretare l’altro dal punto di vista dello schieramento. Nella stessa direzione agisce, d’altra parte, la mancanza di tempo, la necessità di
esprimersi in modo schematico e di definire con chiarezza da subito le proprie posizioni.
Prendendo ad esempio di comunicazione in cui ognuno è attento al modo in cui propone le proprie
argomentazioni ed è attento, nello stesso tempo, alle argomentazioni dell’altro (il messaggio di relazione
è qui soprattutto questo: “mi pongo con te come persona interessata a dialogare con te”) il dialogo proposto da Platone nei suoi racconti su Socrate, l’esempio opposto che viene immediatamente alla mente è il dibattito del talk show televisivo. Stretto nei tempi, caratterizzato dall’incontro-scontro fra persone che si sentono chiamate a dimostrare le proprie ragioni e i punti deboli di quelle dell’altro, questo tipo di dialogo non ha abitualmente nessuna pretesa o capacità di dare informazioni. Né all’altro né a chi ascolta. Si perde o si vince, nell’immaginario collettivo dei sondaggi, sulla base del non verbale, della capacità di dimostrarsi sicuro e di mettere in difficoltà emozionale l’altro.
Profondamente influisce, in questo tipo di situazione, la posizione incerta dell’ascoltatore. Consapevole di non avere mai informazioni sufficienti sugli argomenti di cui si parla, convinto di non avere la possibilità di averne davvero, l’ascoltatore si affida, sempre di più infatti, all’intuito, al “mi piace” e al “non mi piace”. La diffusione mediatica dell’informazione, il suo essere disponibile teoricamente per tutti, celebra in questo modo il trionfo della incompletezza sistematica dell’informazione, della necessità, per chi ascolta, di scegliere sulla base delle emozioni che prova. Di utilizzare le emozioni piuttosto che la riflessione per scegliere il suo schieramento.
È in condizioni di questo tipo che le comunicazioni alla Ferrara diventa così (assurdamente) efficace.
Basata sulla supponenza e sulla pseudosicurezza di chi la invia, essa si propone come il veicolo naturale di un’inquietudine incapace di trovare parole per esprimersi. Centrata sull’idea per cui il bene e il male esistono e sono chiaramente individuati essa aiuta soprattutto ad allontanare la fatica e il dolore del pensiero e del dubbio. Invalidare la posizione dell’altro tacciandolo di cattivo, di falso, di ingrato o di antiamericano serve soprattutto ad evitare di ascoltarlo.
Non è un caso, credo, che le buone ragioni della pace trovino spazio più fra la gente che nei dibattiti
fatti sotto il fuoco di una telecamera.
Tutti coloro che le sostengono sanno bene quanto esse non siano antiamericane né a favore di Saddam.
Tutti tranne coloro che hanno un qualche interesse, politico o emozionale, ad evitare di prenderle in
considerazione. Sfuggendo il confronto e trasformando in scontro quello che dovrebbe essere un dialogo.
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