Come resistere alla prepotenza della propaganda farmaceutica- l’Unità 27.01.03

Come resistere alla prepotenza della propaganda farmaceutica- l’Unità 27.01.03

Gennaio 27, 2003 2001-2010 0

Caro Cancrini,
non ho lasciato nuovi pazienti cronici.
A suo tempo organizzai un centro residenziale a Panzaro in Greve in Chianti nel quale accolsi, e qualcuno tornò in famiglia, le persone ricoverate nel manicomio di San Salvi e provenienti dal mio e da altri distretti; funzionò anche come accoglienza di sofferenti di disturbi psichici acuti. Ti faccio notare che una bravissima persona che morì una ventina di anni dopo rispettato e riabilitato da tutti nel paese, tratto fuori dal manicomio criminale di Montelupo, fu accolto per una improvvisa ricaduta un mercoledì Santo ed il venerdì Santo era già a casa a fare Pasqua con i suoi, una persona degnissima proveniente dal sud e che mi fece da testimone alle mie seconde nozze (mentre per mia moglie fu la signora Voltolina che ricordo caramente, moglie dell’indimenticabile Sandro Pertini, allora presidente della Repubblica). Tutto ciò che una adeguata assistenza psichiatrica può essere fatta senza tanti manicomi.
Eppure, oggi siamo purtroppo ancora all’anno zero della psichiatria, troppi modi estranei alla psichiatria, buoni solo a frastornare la gente. Oggi neanche il ricovero in un reparto psichiatrico in ospedale è il
luogo adatto per una proficua assistenza psichiatrica: restano sempre dei manicomi travestiti.
Leggo con piacere che ti distacchi dalle idee di Freud, tanto osannato e che fu certo grande, ma che scriveva in tempi sorpassati. Ho la convinzione che in ogni delirio ci sia sempre un motivo concreto: ricordo il caso di una povera vecchia che il nipote voleva levarsi di torno per prendere la sua casa, la quale incolpava la vicina che le entrasse in casa. «Guardi – mi diceva – l’altro giorno c’era un lenzuolo ricamato
che ora non c’è», e non si ricordava di aver dato la chiave anche a suo nipote. E ancora il caso di Mario, che dopo la morte dei genitori aveva messo in un cassone trecentomila lire ed incolpava estranei entrati in casa con chiavi false a rubargli i soldi mentre si venne a sapere dalla sorella che era venuta a prenderle lei stessa per impedire che lui le scialaquasse tutto.
No, tutti i modi di fare psichiatria non sono tutti producenti allo stesso modo, sarebbe opportuno parlarne su l’Unità, unico giornale appropriato per questi tempi.
Beppe Giannoni
Greve in Chianti

Uno psicoanalista famoso, Paul Federn, scrisse una volta che il modo migliore di seguire in psicoterapia un paziente psicotico era quello di costruire con lui una relazione affettuosa e semplice. Di accoglierlo, nel colloquio, prendendo sul serio le difficoltà che incontra nella vita di tutti i giorni ed evitando, nei limiti del possibile, di riattivare i fantasmi che urgono (e, a volte, urlano) dentro di lui. Diametralmente opposta alla strategia che si utilizza con i nevrotici, basata sul tentativo di portare l’inconscio alla coscienza, quella utile con i pazienti psicotici è, per Federn e per tanti altri psicoterapeuti moderni, una strategia basata sul rispetto del principio di realtà, sullo sforzo di tenere a distanza la violenza delle emozioni legate ai suoi conflitti interni. La vita è un sogno, scriveva Calderòn, e la vita del paziente schizofrenico è spesso un incubo se il terapeuta che lo ascolta non è capace di aiutarlo a tenere lontana la confusione che si porta dentro. Ad aiutarlo nel suo tentativo faticoso di riprendere o di mantenere il contatto con la realtà.
Queste osservazioni di Federm mi sono tornate in mente leggendo la tua lettera e ritornando ai tempi in cui le mie e le tue esperienze si sono definite. Le polemiche culturali, così forti allora, sembrano tutte addormentate, oggi, in un gran mare di indifferenza ma il lavoro di Federm è utile, credo, per dire che quelli che avevano ragione, al tempo del superamento dei manicomi, erano gli psichiatri che avevano il coraggio di lavorare come te. Il discorso di Freud andava compreso e sviluppato nelle sue parti più vitali, non esteso acriticamente a tutta la psichiatria e pazienti di questo tipo non avevano bisogno di un lettino da cui farsi decifrare. Quello che andava praticato fino in fondo con loro era il coraggio di un rapporto di condivisione, la ricerca paziente del significato che si nasconde dietro ai loro discorsi apparentemente incomprensibili, il senso di quelle che D. D. Jackson chiamava le loro «metafore senza virgolette». Come appunto tu ricordi di aver fatto stando accanto a loro, ascoltandoli e praticando la psicoterapia della vicinanza e del buonsenso di cui soprattutto loro avevano bisogno. D’accordo con lo spirito, almeno per me, se non con la lettera del discorso di Freud.
Quello su cui vale la pena di riflettere, invece, è il modo in cui oggi questo tipo di discorso del paziente viene abitualmente accolto. Penso alla povera vecchia che il nipote voleva levarsi di torno per prendere la sua casa e che accusava la vicina di rubarle «i suoi meravigliosi ricami» e al modo in cui la sua metafora senza virgolette diventerebbe (e diventa ogni giorno) «delirio» negli studi degli psichiatri armati di psicofarmaci sempre più «potenti» e incapaci di raccogliere con cura, ascoltando tutti e prendendosi cura di tutti, una storia così inutilmente semplice. Psichiatri che prescriverebbero uno dei nuovi antipsicotici, certamente, aumentando la dose se la «povera vecchia» insiste nel proporre il suo discorso. Fino al momento in cui, ridotta al silenzio, la povera vecchia non sembrerà loro abbastanza triste da meritare un antidepressivo o, magari uno stabilizzante dell’umore.
Condannata, la povera vecchia, ai controlli periodici di chi la «cura»: interrogativi brevi, secchi e crudeli, in cui lo psichiatra verifica se il «delirio» c’è ancora tornando sempre allo stesso punto. «Pensa ancora che
qualcuno le rubi in casa?», dice lo psichiatra, «no» fa cenno la vecchiettta; «le viene ancora spesso da
piangere?», chiede lo psichiatra, «no» risponde lei e lui è soddisfatto e il nipote si sente bravo perché l’ha
portata a curarsi e giustificato se desiderava la sua casa. Perché questa è purtroppo spesso (non sempre, per carità, e non dovunque ma spesso, purtroppo, e in molti luoghi) la psichiatria moderna, un’accozzaglia di sbadatezze e di buone intenzioni, di entusiasmi pseudoscientifici e di cinismo più o meno rassegnato che ha preso il posto di quello che era un tempo il manicomio, chiudendo di nuovo in un ghetto quelli che stanno davvero molto male e sono troppo soli. Un tempo in cui i risultati dell’azione, di ogni azione, debbono essere subito grandiosi ed evidenti a tutti, del resto, è un tempo in cui accettare l’idea di un lavoro che si accontenta di dare vicinanza e sollievo da una «povera vecchia», mettendosi in condizione di decifrare le sue «metafore senza virgolette» sembra terribilmente al di sotto delle aspettative collegate ed una professione che vorrebbe essere prestigiosa e non lo è se non nella misura
in cui si riesce ad incerarsi nell’umiltà dell’ascolto. Nella capacità di aspettare, cioè, dall’interno di un silenzio partecipe, attento e curioso. Senza smanie di protagonismo o ansie di guaritore.
Ancora c’è gente, per fortuna, che ha continuato a lavorare in altre direzioni. Un bel libro da leggere uscito in questi giorni, per esempio, è quello curato da Cirillo, Selvini e Sorrentino, La terapia familiare nei servizi psichiatrici, edito da Cortina: un libro che bene riassume, a mio avviso, la volontà di «resistere, resistere, resistere!» alla prepotenza della propaganda farmaceutica ed all’abbassamento del livello culturale medio dei medici psichiatrici caratteristico di quei tempi. Documentando le cose straordinarie che si possono fare partendo dall’idea per cui l’attivazione delle risorse di un paziente e di quelli che gli stanno intorno (i membri della sua famiglia, prima di tutto) può e deve essere messo sempre al centro di una strategia terapeutica intelligente. In cui c’è spazio anche per i farmaci, naturalmente. Da utilizzare all’interno di un progetto che li comprende e che li spiega, però, in termini di difese del paziente designato dalla violenza delle sue sofferenze e della irrazionalità, pericolosa prima di tutto per lui, del suo corto circuito emozionale.
La contraddizione profonda in cui viviamo tutti, mi pare è proprio questa. Una tv sempre più spazzatura,
una stampa sempre meno colta, una rappresentanza politica e dei quadri dirigenti sempre più modesti corrispondono ad una situazione in cui sembra impossibile che qualcuno pensi davvero ancora da un
serio progetto di riforma. Nel campo della sanità in genere, un progresso tecnologico senza precedenti e
sempre più disumanizzato, però, per i legami troppo stretti che lo collegano ad una logica di mercato.
Ed un senso di stanchezza e di rifiuto, dall’altra parte, per questo tipo di deformazione della professionalità che si diffonde tra gli operatori e in mezzo alla gente. Traducendosi, nel campo specifico della psichiatria, in un numero crescente di professionalità nuove, orientate psicoterapeuticamente, lontane ancora in gran parte dalla possibilità di orientare le politiche dei servizi ma capaci di diffondere capillarmente un tipo di offerta sempre più personalizzata e sempre più attenta ai bisogni reali dell’utente. Del tipo di quello che eri riuscita a costruire tu allora nel Chianti.
La battaglia politica fondamentale, se le cose stanno così, dobbiamo giocarla su campi diversi da quelli praticati in passato. Sul piano, soprattutto, della cultura di base e della formazione professionale. Facendo in modo che i nuovi operatori della salute mentale siano sempre più in grado di leggere con occhio critico le metafore dei loro pazienti e i dépliants dell’industria farmaceutica. Adattando le loro iniziative terapeutiche alla realtà delle situazioni con cui si confrontano. Usando insieme la passione di chi vuole fare un certo lavoro e l’intelligenza di chi è capace di farlo.

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