Cosa insegna il dramma di Cogne sulla realtà dei malati psichiatrici- l’Unità 22.07.02
Gent.mo Prof. Cancrini,
nel leggere la lettera dei genitori di Ancona del ragazzo malato mentale grave e la Sua risposta ho visto una realistica ed agghiacciante fotografia della riabilitazione nel nostro Paese. Non tutti comprenderanno il termine riabilitazione associato a persone gravi, con gravi problemi di comunicazione, perché tale termine viene sempre di più associato solamente a danni fisici, incidenti, calciatori, specifici handicap fisici.
Invece parlavate proprio di riabilitazione, nel senso del significato che alla parola si dava negli anni
Settanta-Ottanta.
Dopo la rivoluzione basagliana si è diffusa una certa sensibilità verso il malato mentale, ma permane una
grande ignoranza sociale rispetto al disabile grave con problemi psicopatologici, per così dire, secondari. Di fatto queste persone spesso sono ospitate in centri psico-medico-pedagogici e non sempre l’assistenza e l’intervento educativo e riabilitativo appare adeguato.
Il settore, come Lei chiarisce, avrebbe bisogno di uno scossone, di un Basaglia della riabilitazione. Invece assistiamo all’imperversare di logiche limitative della spesa e della ricerca, accanto allo sviluppo di mentalità che di fatto tendono a far rinchiudere l’operatore in logiche corporative e settoriali.
I tempi sono diversi da Basaglia e Basaglia aveva avuto, ad esempio, un Don Milani e tanti altri; egli era frutto del suo tempo.
Nel settore riabilitativo sembra aver trionfato una visione riduttivista, che per semplificazione definirei fisiatrica. Si pensi solo alla questione dell’interdisciplinarietà; nel settore psichiatrico questa parola ha ancora un senso, mentre in quello riabilitativo appare semplificato alla sommatoria di interventi professionali.
Non ultima la questione delle misurazioni parametriche, che inondano di schede, tests e cartelle i centri di riabilitazione.
Aggiungerei un’altra notazione: nell’epoca basagliana c’era a livello politico una opposizione decisa e ferma, cosa che oggi stento ad individuare. La mancanza di una politica anti-segregazionista nel settore si nota, come si nota la parcellizzazione delle rivendicazioni.
Tutto ciò sfianca tutti i basaglini ed i donmilanini che si vedono in giro. C’è bisogno di un luogo politico che unisca le lotte dei genitori, degli operatori, dei ricercatori.
Oggi la situazione del cittadino cosidetto normale, paradossalmente, non appare molto distante dalla dimensione del segregato; il berlusconismo ci appiattisce nel trasformarci in disabili della comunicazione.
Riprendiamo a guardarci negli occhi, a frequentarci, a parlare, di riabilitazione anche, perchè no, riprendendo il gusto del cambiamento.
Ronaldo Proietti Mancini
Operatore del Don Guanella – Roma
Il tema proposto da Rolando Proietti Mancini mi sembra davvero centrale. Auspicare un nuovo Basaglia significa poco se non si tiene conto del grande movimento di opinione, del grande sommovimento delle coscienze che rese possibile la valorizzazione di un’esperienza nata in un angolo sperduto d’Italia, a pochi metri dal confine con quella che era allora la Jugoslavia e che è oggi la Slovenia.
Il libro di Basaglia dedicato a “L’istituzione negata” uscì da Einaudi nel 1968, l’anno del Vietnam, di Praga e del movimento studentesco, in una fase della storia nostra, dell’Europa e del mondo in cui lo sviluppo di quella che Hobsbawn chiama «età dell’oro» (una dilatazione senza precedenti del benessere e delle occasioni di consumo) cominciava ad aprire contraddizioni forti fra la disponibilità dei beni (cui tutti o quasi tutti sentivano di poter avere accesso) e la sicurezza di poter contare davvero qualcosa nel momento delle grandi decisioni (una sicurezza riservata ancora a un numero molto ristretto di persone). Diffusa soprattutto fra i giovani, la percezione di questo gap fra ciò che si poteva avere e ciò che si voleva essere (di quegli anni, ugualmente, è il bellissimo libro di Erik Fromm dedicato proprio ad “Avere e essere”) mise in moto un processo senza precedenti di ribellione spontanea, non organizzata, che portò a scendere contemporaneamente in piazza, con slogans incredibilmente simili, gli studenti di tutte le culture avanzate del mondo. Sbattendo in prima pagina l’utopia di un mondo in cui tutti sono uguali, dotati degli stessi diritti.
In Italia e altrove scegliendo il malato mentale e l’Ospedale Psichiatrico come il simbolo di una prevaricazione violenta ed insensata, Franco Basaglia come capo carismatico di una lotta del debole contro il forte che ha possibilità concreta di essere vinta se il clima culturale, l’attesa dei più, il comune sentimento del pudore e della giustizia spingono nella stessa direzione. Nella direzione in cui andavano le lotte dei popoli oppressi, dal Vietnam alla Cecoslovacchia, in un tempo che sentiva lo scricchiolio delle crepe, di ordine morale prima e più che politico, che si aprivano nell’ordine mondiale legato alla stupidità (o alla mistificazione) della «guerra fredda».
Il clima in cui si vive e si fa politica oggi, in Italia e nel mondo, è molto diverso. Il modo più semplice di definirlo, forse, è parlare di una forma particolare e diffusa di rassegnazione che ha sostituito l’entusiasmo di allora. Il sogno che spingeva nelle piazze gli studenti di Praga e di Parigi, di Roma e dei grandi college americani era il sogno di un mondo prossimo a cambiare definitivamente pagina, un sogno culturalmente e politicamente rivoluzionario. Nessuno sembra credere nella rivoluzione oggi (e la parola stessa viene accuratamente evitata dalle persone che si sentono di sinistra) perché nessuno sente come possibili dei cambiamenti rilevanti negli equilibri e nei rapporti di forza che regolano questa fase della storia del mondo. Il che è malinconico perché scendere dai propri sogni fa sempre un po’ male e potrebbe essere, però, più concreto e realistico: se i problemi venissero affrontatati, uno per volta, da persone capaci di individuarli con esattezza e di lottare per portarli sul serio a soluzione.
Non ci sarà un altro Basaglia, dunque, per gli invalidi con disturbi psichici e per i nuovi pazienti psichiatrici semplicemente perché se un’opera come quella di Basaglia venisse portata avanti ora da qualcun altro difficilmente essa avrebbe il riconoscimento e la valorizzazione necessaria a diventare un simbolo. Mentre lo spazio c’è, forse, per un discorso basato sulla possibilità di costruire una modificazione progressiva degli atteggiamenti prevalenti. Insistendo soprattutto sulla sottolineatura di eventi del tipo di quello segnalato una settimana fa dalla famiglia di Ancona. Insistendo sulle questioni relative alla complessità ed alla importanza del lavoro di chi lavora in quelle situazioni.
Aprendo un fronte mediatico sul tema dell’emarginazione cui gli invalidi e i disturbati psichici sono costretti insieme con le loro famiglie. Costringendo politici ed amministratori a rendersene conto. Sapendo bene, però, che si tratta di un lavoro controcorrente, di un lavoro che deve smuovere l’inerzia di
una posizione consolidata sottolineando l’esistenza e l’importanza di un problema che la gran parte delle
persone non vede e non vuole vedere.
Riflettevo su tutto ciò martedì quando un’intervista esclusiva rilasciata da Anna Maria Franzoni al Maurizio Costanzo Show portava Canale 5 al primato degli ascolti in prima serata. Protagonista della trasmissione, abilmente sollecitata dal suo intervistatore, era la donna che ancora oggi la pubblica accusa ed i giudici della Corte di Cassazione ritengono la principale indiziata del delitto di Cogne. Quello che era scomparso dalla trasmissione, quello che non contava più nulla era il più debole, il bambino morto che non esisteva più, se non in quanto causa del dolore di una donna messa sotto il fuoco dei riflettori. Di bambini morti, infatti, è pieno il mondo e i bambini morti non fanno notizia né audience. Quello che piace, che interessa, che affascina, è il volto impenetrabile della donna che potrebbe averlo ucciso: chiamata a rispondere in diretta, con una rappresentazione più o meno riuscita, alla curiosità di un pubblico ansioso di elementi che gli consentano di pronunciare un proprio giudizio.
Sta proprio qui, mi pare, nella elezione a protagonista della madre
che potrebbe averlo ucciso e nella
cancellazione della scena del piccolo Samuele, l’elemento più caratteristico di quello che va di moda oggi,
di quello che chiama l’attenzione del pubblico e che rende popolare una trasmissione televisiva: la sicurezza di una persona che ha il coraggio di esibire il proprio dolore utilizzando la posizione di forza che le viene offerta per combattere con armi improprie la sua battaglia legale; la contraddizione emotiva cui il pubblico si sente esposto e il fascino un po’ perverso delle realtà inquietanti, delle persone che hanno fatto o potrebbero aver fatto cose comunque fuori del comune. Meglio (l’interesse è ancora maggiore) se non si può essere del tutto sicuri che le abbiano fatte davvero e se c’è la remota possibilità di inserirle (sapiente regia di avvocati famosi) in quel piccolo grande esercito dei perseguitati dai giudici specializzati nella ricerca di comprensione e complicità da parte di chi di giudici (e di vigili, di finanzieri e di quanti altri pretendono di entrare nel «privato» dei cittadini) vorrebbe sempre potersi lamentare.
La condizione dei minorati psichici, mi sono detto, è molto simile a quella del piccolo Samuele. Entrano in cronaca soprattutto nel momento in cui qualcuno li uccide o usa loro violenza. La loro presenza sui giornali e in televisione è subito oscurata, tuttavia, dal dramma di chi è accusato di averli uccisi o violentati (quando l’accusa non è certa) o dalla efferatezza e dalla violenza di ciò che hanno subito. Mentre quella che dovrebbe trovare spazio sui media e negli shows, se le cose andassero diversamente, quando le cose cominceranno ad andare diversamente (Costanzo, Vespa e tanti altri arriveranno mai a pensarlo?) potrebbe essere il loro quotidiano, la semplicità e la dolcezza del loro stare con gli altri, la limitatezza paurosa delle risorse con cui si tenta di corrispondere alle loro esigenze.
Ho avuto fra le mani di recente la fotografia di un bambino di setteanni, paralizzato a tutti e quattro gli arti, non vedente, inserito per volontà della famiglia e dei servizi, in una classe normale di scuola materna di una piccola città del Lazio.
Lo ritraggono, le fotografie, in braccio alla sua insegnante di sostegno, vicino ai suoi amici della classe che
hanno chiesto di essere ripresi, uno per uno, accanto a lui. Michele (io lo chiamo così) comunica con il tatto, mi dicono, con il rilasciamento muscolare e con il sorriso beato di chi sta bene nel momento in cui si sente accolto e voluto bene. Si alimenta meglio ed è cresciuto, un miracolo piccolo piccolo, da quando frequenta gli altri bambini, da quando scambia affetto con loro in questo modo primitivo. Da quando si è sentito partecipe di una vita che non è la sua e che diventa un po’ sua. A cui dà un contributo suo di dolcezza e di calma.
In modo molto differente da quella di Samuele, la madre di Michele non chiede e non si vede offrire un posto da protagonista. Sta sullo sfondo perché protagonista è lui, il bambino, quello a cui si può dare
e da cui si può ricevere affetto solo se si ha pazienza, tempo, capacità di stare nell’ombra, capacità di parlare senza parole. Cambierebbe un po’ il modo che abbiamo tutti di comportarci con il diverso se quello cui si assiste in prima serata fosse un miracolo di questo tipo? Mi capita, a volte, di pensare di sì perché, molto al di là di tutte le discussioni di principio, quello che conta davvero oggi sembra la visibilità e perché uno dei nodi stretti della democrazia imperfetta di oggi sembra lo strapotere dei pochi che decidono cosa deve essere visibile e cosa deve stare nell’ombra.
In tanto parlare di pluralismo, forse, il problema potrebbe essere posto così. Accanto alla battaglia per un pluralismo rispettoso delle diverse forze politiche, quella che andrebbe aperta è una battaglia per un pluralismo rispettoso delle aspettative, dei diritti, dei discorsi di chi oggi non ha spazio per far ascoltare la propria voce. Rendendo possibile l’incontro di un pubblico ampio con la dolcezza e con la ricchezza del diverso. Con la lentezza a volte meravigliosa del portatore di handicap. Rendendo impossibile o politicamente suicida il gioco di chi, decidendo, non si ricorda abbastanza di loro
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