Il male del mondo, la psicanalisi e i cuccioli dell’uomo- l’Unità 18.11.02
Caro Cancrini,
pochi giorni fa sono tornato da un viaggio a Buenos Aires; ero stato invitato a tenere delle conferenze in università in cui, quando stavo in Argentina, avevo studiato e insegnato, ed in istituti minorili nei quali avevo avuto incarichi di responsabilità; temi degli incontri, famiglia, droga e aids soprattutto in relazione alla psicoetica degli operatori sociali; argomenti su cui da anni sto lavorando in Italia.
Nell’era post-istituzionale o post-moderna la società in crisi porta in sé l’insicurezza, la precarietà: nessuno è in grado di organizzare un progetto di vita ed essere sicuro di realizzarlo, nessuno può prevedere neanche il futuro immediato.
Quinta potenza economica mondiale negli anni Cinquanta, granaio del mondo, l’Argentina adesso si trova ad attraversare una crisi profonda, tanto che i bambini di alcune zone povere e soprattutto nelle grandi città rischiano di morire di fame. Questa povertà influisce sull’ambito psicologico e sociale. Molti individui entrano in profondi stati depressivi; ciò dipende da una parte dalla perdita di fiducia in se stessi, dallo smarrimento di senso nelle proprie possibilità e dalla mancanza di futuro; dall’altra – sul piano sociale – dipende dal fatto che essi mettono in atto una ricerca affannosa delle proprie origini per avere il certificato di nascita di un nonno o addirittura di un bisnonno europeo, in particolare italiano, in modo da poter ottenere la cittadinanza per emigrare, questa volta in senso inverso. La situazione è aggravata dal
fatto che questi anziani, già sradicati dalla proprie famiglie di origine, sono lasciati da figli e nipoti che cercano di ritornare alla terra di origine.
Il problema centrale dell’Argentina -come sostengono alcuni osservatori- non è prevalentemente economico – in quanto questa nazione possiede ancora delle ampie risorse di ricchezza in materiali pregiati e derrate alimentari -, ma politico e morale. Purtroppo tanti adesso vedono di nuovo la soluzione militare come l’unica salvezza per «mettere le cose a posto» e garantire la sicurezza a livello sociale, messa a rischio dall’incremento della criminalità. In questa fase la Chiesa sta giocando un ruolo importante nell’assistenza a persone prive di risorse, facendosi inoltre mediatrice fra la popolazione e il potere politico, e cercando di trovare soluzioni incruente. Si riscontra anche un ritorno della gente alle radici cattoliche, dopo un periodo di scarsa adesione dovuta alla presenza di sette plagiate da capi carismatici, o ad un laicismo di stampo politico.
Nella popolazione è evidente un desiderio di partecipazione alla politica attiva che travalica i partiti e si concretizza in incontri, manifestazioni, discussioni assai motivate e vivaci in ambiti universitari, sociali, di associazioni. Da alcuni amici ho saputo che, a differenza di periodi precedenti in cui si era verificata una certa contestazione da parte dei figli nei riguardi dei genitori, appartenenti alla generazione precedente, considerata dai giovani superata, adesso genitori e figli si ritrovano a discutere insieme, con posizioni sostanzialmente concordi, e critiche nei confronti dei governanti e dei responsabili economici di oggi.
La diffusione della psicanalisi, diventata da decenni in Argentina retaggio non solo individuale ma anche di gruppo, perfino adottata nelle scuole e praticata da un numero di persone straordinariamente maggiore rispetto all’Europa, ha contribuito a portare gli individui ad una introspezione personale, alla ricerca delle proprie responsabilità nella propria esistenza, determinando una sorta di presa di coscienza dei successi e dei fallimenti di ciascuno. Questa visione personale di forte riflessione ha forse contribuito a che il processo di individualizzazione abbia avuto un effetto colpevolizzante e autopunitivo; nessuno o quasi si rende conto che se di responsabilità e di vere e proprie colpe si tratta, esse vanno attribuite a meccanismi di potere internazionale. Il fatto di non poter individuare il volto dei «responsabili» delle proprie «disgrazie» aumenta il senso di autocolpevolezza, di sfiducia. È bene che gli argentini diventino consapevoli che la loro situazione individuale supera la responsabilità personale. Ad aver portato alla rovina il loro Paese e quindi loro stessi è soprattutto una politica e un’economia di cui sono responsabili poteri che travalicano individualità e nazione.
Tu che ne pensi?
Francisco Mele
La questione che tu proponi è una questione di grande portata. Dal tempo in cui Freud scrisse “Il disagio della civiltà“, il discorso sul rapporto fra psicoanalisi, diffusione di una cultura psicoanalitica e politica (o scelta, in politica, di atteggiamenti e di posizioni coerenti con la tradizione psicoanalitica) ha dato luogo a polemiche forti e a sviluppi molto contraddittori. Quello di cui tu dai testimonianza, tuttavia, è un fatto reale e concreto, la cronaca di un atteggiamento diffuso e delle sue conseguenze. Con implicazioni forti, a
mio avviso, sul ruolo e sul senso della psicoanalisi e delle psicoterapia in genere nel mondo moderno su cui è interessante, credo, fermare l’attenzione una volta di più.
Il problema fondamentale, dal mio punto di vista, è quello della concezione dell’uomo e del funzionamento della sua mente che sta alla base della pratica e della teoria psicoterapeutica. Quello che occorre sottolineare con forza è che Freud stesso è stato estremamente contraddittorio su questo punto e che i suoi seguaci, analisti «doc» e terapeuti «non doc», si sono divisi in modo spesso altrettanto contraddittorio in seguito. Vediamo come.
Il primo Freud, il Freud che riflette e scrive fino alla guerra mondiale ha centrato a lungo il suo discorso
sulla interpretazione di un linguaggio del desiderio (dell’Eros nella terminologia che fu la sua). Nella interpretazione dei sogni, il prototipo del sogno è quello del bambino che non può fare una gita e che sogna di farla la notte successiva. In Gradiva, il delirio di Harold è un delirio in cui il giovane protagonista «sogna ad occhi aperti» l’amore della fanciulla che nella vita lo ha respinto. L’aggressività più o meno direzionata e il male che ad essa si collega sono il frutto di una reazione alla frustrazione. Idealmente, un
contesto appropriato di cure e di affetti permette al bambino di svilupparsi come un essere umano
equilibrato e sereno. Volta a decodificare il linguaggio del sogno e del desiderio, la terapia psicoanalitica è ricostruzione attenta degli impedimenti, dei traumi, dei fraintendimenti che hanno impedito lo sviluppo normale. La ricostruzione del conflitto a cui il sintomo si collega è la premessa naturale della sua
risoluzione.
Nel dopoguerra e, più in particolare, a partire dal 1921, l’approccio di Freud cambia. L’idea che la storia
dell’uomo sia il terreno di uno scontro fra Eros e Thanatos, fra istinti di vita e istinto di morte, riporta dentro la persona, a livello della sua struttura psicofisica di base, l’origine dell’aggressività. Non più collegata necessariamente al trauma e all’ inadempienza esterna, l’aggressività dell’essere umano è innata, naturale, parzialmente irrisolvibile. La cultura (vista come l’insieme delle regole, implicite o esplicite, su cui si basa la convivenza fra esseri umani) si pone in antitesi inevitabile con la natura perché l’aggressività non motivata del singolo esprime e realizza una antisocialità legata all’homo homini lupus di cui aveva parlato Hobbes. Un pessimismo sempre più amaro coinvolge la stessa possibilità di curare il disagio del singolo. La psicoterapia e la psicoanalisi si trasformano in ricerca paziente e faticosa del proprio contributo al proprio star male. Ricostruito, il conflitto si pone di fronte alla persona come manifestazione di una sua contraddizione intima e ineliminabile. Reso saggio dall’analisi, il terapeuta è un uomo triste perché si incontra ogni giorno con il bisogno di morte alla base della vita psichica sua e di ogni altro essere umano.
Tornando al caso dell’Argentina, non è forse un caso il dato storico per cui analisti, famosi in tutto il mondo per la profondità del loro pensiero, abbiano accettato con una specie di rassegnazione perfino
la dittatura di Videla e gli orrori legati alla vicenda dei desaparecidos. Proponendo un modello che sopravvive oggi, da quello che tu mi scrivi, in una cultura diffusa della psicoanalisi e della psicoterapia
basata sul tentativo di capire quello che è successo allora e quello che sta succedendo oggi in termini di colpa e di responsabilità personale.
Il problema è, caro Francisco, che una rivisitazione moderna del discorso di Freud rende sempre più
evidente il fatto che le teorizzazioni successive al 1921, quelle legate all’idea dell’istinto di morte, debbono essere considerate oggi come una ipotesi sostanzialmente priva di fondamento.
Quello che appare sempre più chiaro, infatti, a chi si è occupato come ricercatore dei primi due anni di
vita del bambino e a chi si occupa come terapeuta dei disturbi della personalità che danno più ampio spazio al manifestarsi di una aggressività apparentemente immotivata e spesso fuori controllo, alternativamente o prevalentemente diretta contro di sé o contro gli altri, è che esse vanno ricondotte al prodursi di esperienze traumatiche precoci, vissute in tempi in cui l’apparato psichico non era ancora in grado di formare e di immaginare ricordi strutturati. A episodi ripetuti e significativi, cioè, che lasciano impronte, invece che nella memoria richiamabile alla coscienza in forma di ricordo strutturato, in una
memoria meno strutturata della disposizione generale della persona che si incontra con sé stessa e con
l’altro. Deformandola quel tanto che basta per proporre, all’osservatore che non teneva conto della loro origine, un di più di aggressività, non direzionata e non controllabile, rivolta fuori o dentro, l’idea di
un istinto costitutivo della sua natura di essere umano. L’idea, cioè, di quello che Freud infelicemente chiamò «istinto di morte».
Il che vuol dire in fondo, caro Francisco, che lo sviluppo di cui c’è probabilmente bisogno, in Argentina e
in tante altre parti del mondo, è quello di una ricerca e di una pratica della psicoterapia capace di ritornare alle sue origini: origini che sono sempre, a mio avviso, origini di progresso rivoluzionario. Quello
che noi dobbiamo testimoniare insegnando, infatti, è il fatto per cui l’essere umano è sano nella misura in cui le condizioni esterne, sociali ed affettive, gli consentono di essere tale. Segnalando con forza, a chi vive le contraddizioni di oggi, che esse possono ricadere anche sui suoi figli e che una lotta intelligente contro le ingiustizie che segnano tanto drammaticamente il mondo di oggi è anche, e forse soprattutto, una lotta rivolta alla costruzione della salute mentale di quelli che l’Internazionale cantava come «futura umanità».
La psicoanalisi e la psicoterapia possono avere un ruolo fondamentale, a mio avviso, in questa direzione.
Riconducendo al conflitto e all’ingiustizia l’origine del male che c’è nel mondo, esse possono aiutarci a
cercare con forza sempre maggiore un coordinamento stretto fra pratiche di tutela e di valorizzazione dell’individuo e pratiche di buona attività politica.
Esaltando insieme il sogno di Roberto Benigni che riesce a proteggere individualmente il figlio dagli orrori del lager tedesco e lo sforzo di chi crede nella possibilità di lottare contro la fame nel mondo, esse possono aiutarci a capire e a far capire, infatti, che l’infelicità e lo star male degli esseri umani non dipende dai geni, ma dalle situazioni sbagliate in cui hanno la sfortuna di crescere.
Il cucciolo umano ha bisogno di cure speciali e complesse. Civiltà è, da questo punto di vista, soprattutto capacità di tutelare i bambini. Affettivamente ed economicamente. Sapendo che questo è l’unico modo di evitare che essi incontrino, nel corso della loro vita, dei bisogni di morte: bisogni che possono trasformarli in vittime predestinate o in persecutori altrettanto e forse più infelici.
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