Il nemico, ovvero come incanalare l’aggressività delle masse- l’Unità 23.09.02
Caro Cancrini,
leggo su Il Messaggero del 18 settembre che la guerra all’Iraq sarebbe voluta dal partito
repubblicano, negli Stati Uniti,soprattutto in funzione elettorale. Testualmente (l’articolo è firmato da Stefano Trincia): «La polemica che in questi giorni serpeggia sui giornali, in Tv ed alla radio prende spunto da una circolare riservata inviata in agosto ai quadri dirigenti del Partito Repubblicano da Carl Rove, consigliere politico di Bush e eminenza grigia della Casa Bianca. Il documento, tanto segreto da divenire rapidamente di pubblico dominio, recitava nelle prime tre righe: “In vista delle elezioni di novembre, sfruttare il fattore guerra, crea consensi, è un vantaggio sui democratici”
I sondaggi di opinione commissionati dalla Casa Bianca segnalano la forza elettorale della guerra contro il terrorismo in Iraq: un presidente comandante in capo delle forze armate impegnato a combattere i nemici del popolo americano è un avversario politico difficile da colpire. Anche quando, come di questi tempi, l’economia va malissimo, lo Stato sociale barcolla, la disoccupazione aumenta».
Difficile davvero pensare che questa motivazione, da sola, possa spiegare una decisione così drammatica. Che essa abbia anche soltanto una qualche importanza, tuttavia, fa davvero paura. Così come fanno paura la freddezza con cui le notizie sulla possibilità di una guerra vengono date e non date dalla stampa e in televisione, la ferocia sorniona di Giuliano Ferrara che attacca come antiamericano o antioccidentale o
“troppo ingenuo” chiunque tenta di dar voce a delle riflessioni un po’ più articolate su un problema complesso come questo, la vanità del sorriso di Berlusconi felice di poter essere fotografato accanto al presidente degli Stati Uniti e apparentemente capace di dimenticare, per questo, i contenuti e le ragioni dell’incontro. In che mondo viviamo? Che sta succedendo?
Franca Forti, Roma
In un libro famoso dedicato alla Storia d’Italia (Laterza lo ha pubblicato da poco in edizione economica)
Denis Mack Smith, uno storico inglese di scuola liberale (e dunque non marxista, non socialista o rivoluzionario) analizza con sconcertante lucidità due passaggi cruciali del percorso compiuto dal nostro Paese: quello legato all’ingresso in guerra dell’Italia nel 1940 e quello legato all’entrata in politica di Berlusconi nel 1994. Quella che se ne può trarre, credo, è una riflessione utile sul problema da lei proposto: il problema alla base di tante ricerche e tante discussioni sul modo in cui, nella storia, piccole
motivazioni personali o di parte possono dar luogo a eventi di enorme portata. Come accade a volte in montagna quando un rumore improvviso può mettere in moto una valanga o nei boschi quando l’imprudenza di un campeggiatore fa partire un incendio.
Cominciamo dal primo dei due passaggi. È il maggio del 1940, la Germania di Hitler sembra destinata a vincere rapidamente la sua guerra contro quella che fascisti e nazisti chiamavano «le plutocrazie occidentali». «L’idea di poter sfilare alla testa di un corteo vittorioso attraverso Londra o Parigi era irresistibile, e ora pensava di potersi annettere un territorio enorme in Africa centrale e nel Medio Oriente.
Era umiliante starsene in disparte a braccia conserte mentre altri stavano scrivendo la storia. Per rendere grande un popolo, egli disse, bisogna costringerlo a combattere, magari anche prendendolo a calci. Temeva di diventare oggetto di scherno per tutta l’Europa, ma si consolava dicendo a Ciano che avrebbe fatto rimpiangere agli inglesi la loro ostinata resistenza e che l’intervento dell’Italia avrebbe segnato l’inizio della loro disfatta. (…)L’intervento dell’Italia non recò nessun beneficio ai tedeschi, e non fece altro invece che chiudere un’utile falla nel blocco continentale praticato dagli inglesi e coinvolgere la Germania negli stravaganti progetti di un megalomane incompetente».
Ragioniamo ora sul secondo dei due episodi, l’entrata in campo di Silvio Berlusconi. Scrive in proposito Denis Mack Smith: «Silvio Berlusconi, uno degli uomini più ricchi d’Europa, aveva conquistato i suoi primi successi nel campo dell’industria edilizia milanese durante gli anni Settanta, un periodo di speculazione immobiliare senza freni; e si era poi allargato ai settori delle assicurazioni, dei supermercati, della pubblicità, dei giornali e, cosa più importante di tutte, della televisione. Secondo alcuni, la Fininvest, la sua holding di famiglia, aveva un peso politico pari a quello della Fiat; ma, a differenza della società di Giovanni Agnelli, la Fininvest non era quotata in Borsa, e di conseguenza i suoi conti e le sue innumerevoli ramificazioni rimanevano sconosciuti. (…)Un fatto che indusse Silvio Berlusconi a impegnarsi in politica fu che l’eclisse di Craxi l’aveva lasciato pericolosamente privo di protezione politica. Un altro fatto importante era dato dagli enormi debiti contratti con le banche del settore pubblico. Berlusconi era interessato a portare queste banche sotto la sua diretta supervisione politica, o quanto meno a impedirne il controllo da parte della sinistra. Il timore era che ministri della Giustizia e delle Finanze a lui ostili potessero adottare in materia di irregolarità finanziarie una linea più dura rispetto ai precedenti governi, e magari interrompessero la serie delle frequenti amnistie per l’evasione fiscale e le illegalità nel campo dello sviluppo urbano, da cui dipendevano molte fortune private. Erano in giuoco anche le reti televisive commerciali di Berlusconi, tanto più che questo lucroso quasi-monopolio era stato denunciato dalla Corte Costituzionale a Roma e dai politici europei a Bruxelles».
Gli esempi, ovviamente, potrebbero moltiplicarsi. Quelli qui riportati, tuttavia, sono sufficienti a proporre un dubbio di fondo sul funzionamento delle istituzioni politiche, sugli uomini che le guidano, sul tipo di rapporti che essi hanno con il popolo che li elegge (nel caso di Bush e di Berlusconi) o che li acclama (nel caso di Mussolini). Quello che si mette in moto nel caso dei nostri esempi infatti, e che si sta mettendo in
moto ancora una volta adesso, è un meccanismo perverso per cui, grazie ad una operazione di facciata, ad una manipolazione intelligente e riuscita dell’opinione pubblica, scelte basate su motivazioni modeste e di cui ci si dovrebbe sostanzialmente solo vergognare, vengono presentate come necessarie ed importanti per tutti. Più o meno apertamente e sistematicamente favorito dal sistema giornalistico e, oggi, televisivo, quello che viene ottenuto in questo modo è un consenso di massa, fortemente caratterizzato in termini emozionali, legato ad una identificazione con un leader di cui si approvano coscientemente le parole e di cui si condividono inconsapevolmente gli impulsi, le tendenze trasgressive o le crudeltà. All’interno, il tutto, di una situazione ben nota agli studiosi delle relazioni interpersonali più patologiche. Affidati all’altro ed alle azioni di un altro capace di esaudirle senza dirlo e di dare loro occasioni negate (rimosse) di soddisfazione, le tendenze più sadiche e gli impulsi più aggressivi caratteristici di una psicologia delle masse che vivono in una situazione reale o costruita di difficoltà possono trovare, infatti, uno sfogo semplice, naturale ed appagante. Capace, soprattutto, di non mettere le persone in difficoltà con la loro coscienza.
La seconda cosa su cui dolorosamente dobbiamo cominciare a riflettere è che la democrazia rappresentativa basata sul voto, così come è organizzata oggi, non offre rimedi sicuri a questo tipo di
perversione della politica. Il fatto che acquisire potere e prestigio di rappresentante politico possa tornare utile dal punto di vista economico per sé e per il proprio clan e quello, sempre più grave oggi, per cui scendere in politica è possibile solo per chi dispone di un impero economico, del sostegno di una lobbie
o di una organizzazione come il partito politico (quello di oggi che a sua volta dipende spesso, per poter funzionare, da una disponibilità sempre meno facile da acquisire senza l’aiuto di chi ha un impero economico o di una lobbie) hanno determinato una situazione, infatti, in cui il consenso e il voto degli
elettori non esprimono più opzioni di fondo in contrapposizione fra loro.
Sembrano configurarsi sempre di più come scelte basate sulla capacità di presentarsi di un leader e sul suo indice di gradimento. Come una merce, cioè, che può essere acquistata su un terreno che si configura sempre di più come quello caratteristico delle attività commerciali. Tristissimo pensare, sulla base di queste considerazioni, che i persuasori occulti della politica siano costretti per restare a galla, per mantenere e accrescere il loro potere, ad utilizzare le stesse tecniche dei commercianti che vendono un prodotto. Con l’aggravante drammatica per cui loro, i politici, sono i soli a poter «vendere» prodotti falsi, su cui non vigila nessuna Authority. D’istinto imparando, i più furbi o i più abili, quelli comunque che hanno più probabilità di «vincere», che l’acquisto dei voti è più facile se le masse vengono sollecitate fortemente sul piano emotivo (suscitando speranze, sostanzialmente, e individuando nemici che impediscono di realizzarle) costruendo delle situazioni in cui quelli che contano sono soprattutto i messaggi che fomentano la rabbia e l’aggressività agendo sui livelli meno consapevoli della
percezione e della valutazione. Come bene illustrato, mi pare, dalla affermazione per cui «un presidente comandante in capo delle forze armate impegnato a combattere i nemici del popolo americano è un avversario politico difficile da colpire». Affermazione con cui lo staff del partito repubblicano e il clan di Bush, che hanno avuto il contributo generoso e in chiaro delle industrie che producono armi in campagna elettorale (e che ai loro finanziatori debbono pur rispondere delle loro scelte) pensano di poter inseguire oggi il consenso ed i voti di una popolazione sottoposta da tempo ad un bombardamento di notizie sul terrorismo e sul Male del mondo (paurosamente simili, da questo punto di vista, a quelle sulle plutocrazie, sugli ebrei e sui comunisti della propaganda nazista o fascista) che hanno efficacemente preparato il terreno all’annuncio della guerra. Una guerra di cui solo gli ambienti intellettuali più sofisticati considerano i pro, i contro e la legittimità. Una guerra contro cui hanno difficoltà ad esprimersi anche gli esponenti della attuale opposizione democratica: spaventati dall’idea per cui i discorsi giusti, quelli in cui magari si crede, potrebbero creare problemi nel momento delle elezioni. Con ciò segnalando il limite, nei paesi occidentali moderni, anche di quella democrazia dell’alternanza verso cui così tanto faticosamente andiamo (crediamo di dover andare).
Potremmo fare qualcosa? Si può progettare qualcosa? Lontano dalla politica attuale, dire che un popolo è sovrano dovrebbe voler dire che ha il diritto di essere consultato direttamente (un nuovo uso dei sondaggi?) dopo aver ricevuto una informazione corretta (una par condicio vera intorno alle diverse opzioni, non intorno a chi le propone). Sognare è sempre utile quando si vive una condizione di estremo disagio ma il movimento pacifista dovrebbe riflettere e combattere sulla procedura con cui si arriva alle decisioni oltre che sui contenuti di queste ultime.
Maggio 1940. Nel racconto di mia madre eravamo alla stazione di Anzio, noi piccolissimi con lei ancora troppo giovane. Quando l’altoparlante cominciò a diffondere in diretta la dichiarazione di guerra di Mussolini, lei cominciò a piangere e non si fermava più. Ogni volta che si parla di guerra quella che mi
torna in mente è quella immagine. E mi dico che piangere non basta.
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