Immigrati, così difficile viverli come persone?l’Unità 12.01.04

Immigrati, così difficile viverli come persone?l’Unità 12.01.04

Gennaio 12, 2004 2001-2010 0

Gentile Professor Cancrini,
le scrivo da Volterra, dove più di un anno fa, abbiamo iniziato un accademia di teatro reportage per rifugiati e richiedenti asilo, che prevede anche la convivenza.
Nel nostro lavoro di Teatro Reportage abbiamo scoperto quanto è difficile per un rifugiato trasmettere
il suo passato, la sua cultura, la storia del suo popolo o paese. E’ difficile trovare un linguaggio che esprima quello che ha vissuto in un modo che possa arrivare anche a livello emotivo a persone di una cultura lontana, diversa.
E’ difficile perché quello che vuole raccontare, lo ha veramente vissuto. Ha vissuto dolori di tortura, dolori per aver perso dei familiari, odio, rabbia e solitudine per sentirsi abbandonato in situazioni senza speranza.
Noi della cultura occidentale, siamo abituati a vedere immagini terribili, schizzi di vita in televisione, nelle
interviste e articoli sui giornali, sulle foto. Siamo abituati a sentire storie dolorose, a sentire come migliaia e migliaia di persone sono morte in guerra, a sentire della fame nel mondo… ma tutto rimane “lontano”.
Non abbiamo il tempo di immedesimarci in quelle situazioni.
Durante le preparazioni dei Teatro Reportages sul Kurdistan e sulla povertà nel mondo, abbiamo lavorato e vissuto insieme con due rifugiati del Kurdistan. Uno di loro era stato torturato finché lo pensavano morto.
Delle volte quasi sveniva durante il lavoro e andavamo di corsa al pronto soccorso… abbiamo avuto incomprensioni, conflitti per i nostri comportamenti diversi di culture lontane come possano essere l’occidente e il medio oriente. E abbiamo dovuto trovare un modo per capire e accettare, se volevamo continuare a lavorare insieme. Abbiamo dovuto spiegare i nostri comportamenti, cosa significava agire in un modo nelle diverse culture.
Abbiamo incontrato e convissuto per periodi più e meno lunghi con una tale quantità di rifugiati, nel nostro caso del Kurdistan, che abbiamo iniziato a condividere con loro gioia e dolore. Il loro completo isolamento e il loro sradicamento. La loro continua paura di creare problemi a chi era rimasto là, amici, famiglia, che potevano essere torturati, imprigionati, la casa distrutta solo per una loro telefonata. Il dolore di lasciare tutto dietro, amici, il proprio paese, per iniziare una nuova vita in un paese dove nessuno ti sta aspettando. La terribile preoccupazione per una moglie un figlio che sono in viaggio illegalmente e che non arrivano. Nessun segno di vita per settimane e settimane.
Dolore e odio per un fratello ucciso, incarcerato, madri e sorelle violentate, torture, per case, villaggi interi
distrutti, bruciati. La disperazione e la forza enorme per farcela, per ricominciare da zero in un paese del quale non parlano la lingua se non con la capacità di un bambino di tre anni…
In questa scuola si cerca di convivere, studiare e realizzare progetti, momenti di incontro con le scuole elementari, medie e superiori e altre realtà volterrane e non, azioni teatrali, spettacoli, cene, conferenze… Per raccontare, per fare capire, per creare comprensione, per convivere, per dare informazione diretta dai paesi di provenienza degli studenti.
Ci sarà lo spettacolo in chiusura per la campagna il 19 di gennaio in un teatro a Roma e poi un altra volta a Roma il 27 davanti ai parlamentari, organizzato tra l’altro anche da Nicoletta Dentico…
Abbiamo nei prossimi mesi un progetto dove chiediamo a giornalisti, specialisti, di venire a vivere nella casa dell’accademia e seguire il lavoro che facciamo, chiedendo di scriverne un articolo.
Annet Henneman

Non mi sarà possibile nel breve periodo visitare la casa dell’accademia e seguire il vostro lavoro. Le date
previste per le rappresentazioni romane sono così vicine, tuttavia, da spingermi a parlare subito di quello che fate. Utilizzando, per farlo, i documenti che mi avete mandato. Le attività di Teatro di Nascosto mi sono sembrate così straordinarie, infatti, da meritare una pubblicazione se pure sommaria ed una riflessione sul loro significato.
L’elemento più rilevante di questa riflessione mi sembra oggi quella legata alla differenza incredibile che c’è fra il dramma degli emigrati considerati nel loro insieme, al plurale, in termini di numeri più o meno impressionanti sugli sbarchi dei clandestini, sulle vittime di una tragedia del mare, sull’affollamento dei
centri di accoglienza o sulle statistiche inutilmente trionfanti dei dati sul rimpatrio dei “clandestini” ed il dramma del singolo emigrato considerato come persona, come portatore di una storia unica e irripetibile, come uomo, donna o bambino coinvolto in una tragedia enormemente più grande di lui. Il teatro rappresenta sicuramente la strada più semplice e più diretta per permettere a chi la vive di raccontare ad
altri la sua tragedia. Dal punto di vista dello spettatore, ugualmente, il teatro rappresenta la strada più semplice e più diretta per incontrare l’uomo, la donna e il bambino che si nascondono dietro le cifre, le scene, le facce raccontate dai telegiornali. Sono tutte persone sconosciute, scrivete voi, lontane, in Afghanistan, Kurdistan, Palestina, Guatemala, Eritrea, India, Cambogia, Nicaragua, persone le cui vicende
si sono svolte in luoghi così lontani da non arrivare a toccare la nostra vita quotidiana. Ebbene, sta proprio qui, nella possibilità e nella capacità di allontanare e di negare il dolore degli altri, oggi, la difesa fondamentale di chi non vuole farsi turbare dalle ingiustizie del mondo, di chi vuole, come diceva Bertolt Brecht, mantenere una buona digestione. Perché il turbamento diventa inevitabile e la digestione inevitabilmente più difficile se quella con cui ci si incontra, invece della folla o della statistica, è la persona.
Un teatro come il vostro svolge da questo punto di vista una funzione assolutamente straordinaria. Lo dice bene Rossella, l’alunna che è venuta a vedervi recitare con la sua scuola quando parla di “quel ragazzo del Kurdistan turco” che, alla fine dello spettacolo ha detto di avere preso un grande coraggio proprio dalla partecipazione degli spettatori, suoi coetanei, alle sue vicende.
“Lui, scrive Rossella, pochi anni più di me, ha vissuto, come tanti altri, cose terribili, inumane, che
non dovrebbero neanche esistere ed io ho pensato a dei miei amici che hanno la sua età, ai
privilegi che hanno, che abbiamo, alle piccolissimi difficoltà giornaliere che ci sembrano sempre chissà quale ostacolo da superare. E mi sono sentita un po’ in colpa. Vorrei urlare la mia rabbia per ciò che accade, urlare contro i governi che si attribuiscono il diritto di dichiarare guerra contro quelle persone
che non riescono a venire a patti e portano avanti guerre interminabili. Urlare perché viene negata la libertà. E il pensiero più brutto è l’ineluttabilità di questa condizione. Finché non ci tocca proviamo magari pena per alcune situazioni, ma ciò non cambia il fatto che alla fine non riusciamo a far niente, alla fine io
torno alla mia tranquilla vita, mentre magari qualcuno nel frattempo viene torturato.”
Ho citato per esteso questa testimonianza di Rossella perché mi sembra che essa rappresenti la prova più evidente della importanza e della concreta utilità di un lavoro come il vostro. Rossella, Ilaria e tanti altri che vi hanno scritto dopo aver visto la vostra rappresentazione porteranno sempre nel cuore l’esperienza che hanno fatto con voi. Guarderanno con occhio diverso, d’ora in avanti, l’immigrato che si avvicina per pulire i vetri della macchina e i notiziari del telegiornale. Acquisteranno, sulla base dell’incontro fatto con voi, quel barlume di coscienza politica su cui si basa la moralità di quelli che vogliono sentirsi fino in fondo persone umane, cittadini del mondo in cui abbiamo la fortuna di vivere.
Come accadeva forse un tempo nell’antica Grecia dove il teatro era soprattutto questo: confronto appassionato ed attento sui grandi temi del giusto e dell’ingiusto, del bene e del male, dei diritti e dei doveri della persona e della società. Alla ricerca di una bussola su cui orientare, nella complessità infinita di quello che ci accade intorno, il bisogno più profondo della coscienza umana, la legge morale di cui Kant diceva che sta dentro di noi e di cui non è facile, a volte, capire fino in fondo le indicazioni.

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