La scuola che non può insegnare- l’Unità 13.08.01
Caro Luigi,
La riflessione che volevo proporti parte da una delle analisi e confronti di équipe su di un progetto che la
nostra associazione sta realizzando con la legge 285 in sette scuole dell’obbligo nell’estrema periferia sud-est della città di Roma.
La realtà ambientale è tale che sarebbe fin troppo facile portare il discorso sulle grandi difficoltà che le insegnanti incontrano quotidianamente rispetto all’integrazione di alunni nomadi, immigrati, disabili. Ma lì, così come in molte altre scuole, si realizzando iniziative che spesso rappresentano esperienze di grande qualità, grazie anche ad una legge (la L.104) riconosciuta valida per innovatività anche a livello europeo.
Vorrei invece centrare l’attenzione su di un altro dato di contesto, molto vincolante, rispetto alla efficacia della proposta didattica.
L’accesso al diritto all’istruzione passa oggi attraverso la possibilità di elaborare dei Piani di Offerta Formativa (P.O.F.) ricchi ed articolati che abbisognano però di risorse economiche e strutturali. E qui nasce il punto. In queste scuole di «frontiera» troppo spesso ci si imbatte con situazioni di edilizia scolastica carente, inadeguata, o poco curata (è il caso di quelle scuole che magari possiedono ampi giardini, ma in pieno stato di abbandono, aule piccole, segreterie e/o Direzioni nemmeno dignitose, senza spazi né per i docenti, né per gli alunni (palestre, laboratori) né per incontrarsi e confrontarsi con i genitori. (A me capita ad esempio di fare gli incontri con i genitori nell’atrio della scuola che dà proprio sulla strada, quindi con un rumore di fondo disturbante e con un via vai di persone che per vari motivi, entrano e escono da scuola). Con dotazioni strumentali vecchie e/o inadeguate il diritto all’istruzione è negato al bambino nei suoi aspetti di base: l’impossibilità da parte dell’insegnante di proporre un ruolo professionale e una proposta didattica di qualità.
Mantenere una situazione di assoluta insufficienza strutturale e strumentale e poi magari arrivare ad addossare le responsabilità degli insuccessi apprendimentali e/o comportamentali all’istruzione nel suo complesso, come sembra venire proposta dai fautori del privato, senza tener conto di queste carenze oggettive mi sembra a dir poco sorprendente. Come si può sviluppare il benessere della persona, la motivazione allo studio, lo sviluppo della solidarietà e del rispetto delle differenze in ambienti così poco stimolanti e stressanti?
La scuola che non può permettersi una sua capacità elaborativa e creativa rischia di essere sempre più spiazzata e depauperata. La scuola pubblica sta subendo un attacco fortissimo al suo possibile sviluppo, in relazione alla scelta del nuovo governo di destinare risorse alle scuole private penalizzando peraltro il cambiamento che l’istituzione aveva appena cominciato a fare e prometteva una prospettiva di scuola più radicata nel territorio e quindi in grado di svolgere un ruolo sempre più importante di servizio al cittadino. Ed è proprio in queste aree periferiche delle grandi città, dove anche volendo manca una offerta privata adeguata, vengono a radicalizzarsi le contraddizioni e vengono ad evidenziarsi le maggiori penalizzazioni.
L’opportunità per contrastare tale scenario di isolamento sta nel rinforzare l’autonomia della scuola intesa come sempre più capace di proporsi come servizio in grado di integrarsi con le altre realtà del territorio, di sviluppare accordi con altre agenzie educative, di amplificare il rapporto con le famiglie.
Si tratta di sostenere la scuola (con soldi e professionalità) nella capacità di ricercare all’esterno quelle risorse anche strutturali che essa non possiede (vedi ad esempio convenzioni con società sportive per l’attività motoria per poi trovare un accordo per la certificazione del credito formativo). Bloccare la riforma e destinare soldi alle scuole private, significa dare un duro colpo a questo processo di territorializzazione e rischiare sempre di più di svilire l’istituzione pubblica creando così una prospettiva che aumenta le differenze tra scuole e scuole, tra zone e e zone. Non significa questo forse creare scuole di serie A e scuole di serie B, alunni di serie A e alunni di serie B, in sostanza cittadini di serie A e cittadini di serie B? Allora alla scuola pubblica che chiede risorse non può essere fatto mancare questo supporto. Credo che ogni operatore interno o esterno che ha a cuore la scuola pubblica, che individua in essa una grande
potenzialità di benessere e crescita per i nostri figli, non può far mancare la propria voce critica in ogni contesto di confronto e/o lavoro, per cercare di invertire questa tendenza privatistica.
Un cordiale saluto.
Roberto Patacchiola
Le scuole dell’obbligo situate nelle periferie urbane rappresentano, probabilmente, l’elemento chiave delle politiche sociali portate avanti all’interno di una società democratica moderna. Molto al di là delle iniziative di redistribuzione del reddito a favoredei meno abbienti, esse dovrebbero essere viste, infatti, come il luogo fondamentale di realizzazione di quelle pari opportunità inutilmente sancite dalle
Costituzioni dei paesi occidentali. Dove (la tua lettera ne è una testimonianza ulteriore) i livelli concreti di istruzione garantiti ai bambini sono spesso ancora oggi direttamente proporzionali, purtroppo, al reddito e all’istruzione dei loro genitori.
Guardiamo un attimo, per rendercene conto, la situazione così come si va configurando oggi qui da noi. Iscrivendo i loro figli alle scuole private, straniere o religiose, le famiglie ricche quel tanto che basta per permetterselo, preparano le élites del domani costruendo spazi, d’amicizia, di gusto, di interessi ben separati da quelli propri dei ragazzi che frequentano le scuole normali. All’interno di queste ultime, d’altra parte, quella che si definisce, in modo sempre più netto, è la differenza fra scuole situate nei quartieri residenziali e centrali dove la qualità dell’insegnamento è garantita dal numero degli allievi, dalla presenza assidua dei genitori, dalla concentrazione alta di insegnanti di ruolo stabilizzati e scuole delle periferie dove,al contrario, sovraffollamento delle classi, latitanza dei genitori che lavorano troppo o troppo lontano e turn-over alto (o altissimo) di insegnanti precari o in cerca, comunque, di luoghi di lavoro meno disagiati rendono estremamente precario e incerto il risultato dell’insegnamento di base. Cresce, in una situazione di questo tipo, la richiesta di aiuto psicologico di cui tu qui parli perché l’istituzione scolastica fa ricadere sempre la sua incapacità di farli crescere sui bambini, sulle loro insufficienze o sul loro squilibrio emotivo. E nello stesso tempo cresce, nei confronti delle loro famiglie, una sfiducia profonda, una tendenza ad attribuire a loro, alla carenza delle loro competenze genitoriali, il
disagio di bambini che l’istituzione tenta inutilmente di curare.
Sta proprio nel funzionamento differenziato delle scuole, a mio avviso, il segreto di quella stabilità delle classi sociali evidenziata con tanta chiarezza dalla ricerca sociologica moderna. Liberi di scegliere in teoria, gli adolescenti e i giovani scelgono di fatto amici e partners all’interno del gruppo sociale d’appartenenza semplicemente perché ne condividono il linguaggio, le aspettative, i valori, in una parola la cultura: una cultura di cui la scuola dell’obbligo la scuola di tutti, finisce per accentuare le disomogeneità.
Largamente sottovalutato dalla sinistra al governo, il tema meriterebbe ben altra attenzione e capacità d’iniziativa. Del tipo di quelle avute venti anni fa in Norvegia, per esempio, dove una reale autonomia di scrittura dei bilanci dava alle singole scuole la possibilità di programmare le attività didattiche tenendo
conto delle esigenze reali degli alunni che le frequentavano. Ragionando, in pratica, oltre sul numero dei bambini iscritti, sui bisogni specifici, di ordine sociale, psicologico o culturale, di cui alcuni di essi erano portatori ed assumendo o convenzionando, anno per anno, il personale necessario a questo scopo.
Partendo dal principio, insomma, per cui uguale deve essere non solo il numero di anni di permanenza a scuola ma anche, e soprattutto, il risultato di una vera istruzione di base. È in un contesto di questo tipo, credo, che troverebbe la sua giusta collocazione anche il lavoro di équipes psicologiche liberate dal peso dei bambini considerati anormali da una scuola che non funziona e che sarebbero invece chiamate ad occuparsi solo di quei bambini in cui le difficoltà esterne si sono trasformate o si vanno trasformando in conflitti più o meno consapevolmente interiorizzati: per restituirli, appena possibile, al dinamismo normale di una scuola capace di corrispondere ai loro bisogni.
Ho pensato spesso, in questi anni, che i governi di centro sinistra non sono riusciti a focalizzare sufficientemente l’attenzione su temi come questo.
In mezzo a tante cose fatte, e fatte bene, quella che a me sembra sia mancata è una coscienza più precisa del fatto per cui l’uguaglianza delle opportunità scolastiche non è affatto acquisita nel momento in cui si garantisce la scuola a tutti. Raggiungerla chiede analisi approfondite ed interventi forti di cui è importante segnalare fin da ora la necessità: per articolare una politica chiara di confronto con le spinte che vengono da destra e per preparare il tempo in cui sarà ancora possibile prendere iniziative di governo
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