La voglia di vivere con decenza il torto d’essere anticonformisti- l’Unità 09.02.04
Illustre dott. Cancrini,
non so se rientro nel numero di quelli dei diritti negati. Certamente in quello dei diritti culturali negati.
È da una vita che sono alla ricerca della verità delle cose e si sono interessati al mio lavoro uomini come Prezzolini, Bobbio, Pampaloni. Scrivo da una vita, ho pubblicato diversi testi in prosa e in versi sempre a mie spese.
Adesso che sono pensionato con moglie pensionata e una figlia che frequenta l’università e con le spese (casa in affitto) vorrei poter non finire sul lastrico. Ho 75 anni. Da sette anni affiggo ogni settimana un sonetto sul muro della strada a pochi passi dal Palazzo Comunale. Nessuno o quasi si è accorto di nulla. Non ho alternative, perché non posso pubblicare nulla. Le accludo qui l’ultimo sonetto affisso ieri. Dico, ma potrei guadagnarmi almeno le sigarette con quello che scrivo? Si parla della necessità di dare valore al messaggio della poesia in una società che appare ormai senza anima. E l’Unità ne parla spesso. Esiste anche la giustizia culturale?
La ringrazio dell’attenzione e la saluto molto cordialmente.
Marlon Dani
VIVERE CON DECENZA
Sto spiando nei voli degli uccelli
nelle chitarre mobili dei venti
se mai qualcuno sia, tra i presenti
in città o altrove dai cancelli
fuori da dove è ammasso di cervelli,
a notare che forse gli scriventi
sui muri abbiano a cuore più gli eventi
di chi s’alza al mattino ed è a brandelli.
La sera, che non l’arte di chi dura
a negare l’umana sofferenza
nell’ingiustizia, nella forza oscura
che s’arroga l’arbitrio d’eccellenza
sul povero, su chi non ha paura
di vivere la vita con decenza.
N. 278 dei “Sonetti da muro” affisso l’1
febbraio 2004 a via Annunziata, 151 di
Benevento
Sono rimasto molto colpito dalla sua lettera. Al di là della poesia che è bella e che merita d’essere offerta ai lettori de l’Unità, il problema che lei propone è, a mio avviso, un problema estremamente serio che riguarda le attività culturali che non raggiungono i media e il grande pubblico all’interno di una società che sta seguendo sempre di più le leggi del capitalismo “selvaggio”.
Lei, caro Dani, scrive poesie. Ma la sua situazione è estremamente simile, nei fatti, a quella di chi compone
musica, dipinge dei quadri o fa ricerca in settori che non promettono introiti economici, nel breve periodo, a coloro che sono in grado di finanziarla o di orientare i finanziamenti pubblici. All’interno di una situazione di cui la destra si disinteressa totalmente ma di cui si discute sempre troppo poco anche a sinistra. Come cercherò ora di argomentare con degli esempi concreti.
Parliamo di musica, per esempio, e immaginiamo un ragazzo che scrive delle canzoni belle ma un po’ al di fuori dei generi che vanno più di moda oggi: che abbia la colpa grave, cioè, di essere un po’ anticonformista. Gli amici lo esaltano e lo applaudono ma non è per niente facile che i locali lo chiamino a suonare per delle serate “vere”: non organizzate cioè, intorno all’impegno, preso da lui, di procurarsi un
pubblico. Chi conosce i discografici sa benissimo, d’altra parte, che non aprono neppure le buste che racchiudono i dischi inviati loro dai musicisti che non hanno dei santi in paradiso e che molta parte del loro tempo passa invece, intorno alla “costruzione di personaggi” la cui mancanza di talento sembra
funzionale proprio all’appiattimento progressivo del gusto di chi gestisce le radio e di chi, dopo aver sentito, compra. C’e una distanza spaventosa, in effetti, fra il livello, a volte davvero notevole, dei gruppi
e dei singoli che suonano senza mai avere a disposizione un vero pubblico e quello dei personaggi scelti per rappresentare le nuove leve della canzone in un festival fallimentare come quello che si organizza ogni anno a Sanremo. Guardando da fuori, quella cui ci si trova di fronte sembra, nei fatti, una selezione alla rovescia, basata sull’idea per cui un prodotto, per avere successo, deve essere rigorosamente privo di ogni originalità. Mentre quella che non esiste, tristemente, è una categoria di critici musicali capaci di mettersi in controtendenza, sui quotidiani e sulle riviste specializzate, con gli orientamenti di una industria discografica che ha il monopolio del mercato. In modo molto simile vanno spesso le cose, del resto, per quelli che dipingono. Le gallerie d’arte hanno il monopolio delle esposizioni ma per accedervi bisogna piacere ai critici e molti sono purtroppo i critici che rilasciano solo a pagamento dei giudizi favorevoli. Nel campo della ricerca, ugualmente, le cose non vanno meglio. Le parlo del mio settore, per esempio, quello della psichiatria in cui i finanziamenti vengono praticamente tutti dall’industria farmaceutica e vengono orientati, tutti, verso la dimostrazione dell’utilità degli psicofarmaci. Sono quaranta anni che opero in questo settore e posso assicurarle di aver assistito a tutta una serie di imbrogli fatti sulla pelle dei malati gabellando per ricerca quella che era in effetti una promozione di “nuovi” medicinali destinati a riempire per non più di due o tre anni gli scaffali delle farmacie. Mai in quaranta anni mi è capitato, d’altra parte,
di incontrarmi con una ricerca finanziata da qualcuno, pubblico o privato, in tema di psicoterapia. Lì chi lavora, studia e pubblica lo fa a proprie spese: come ha fatto lei con le sue poesie in tutti questi anni.
Il problema, caro Dani, è che una società governata dal denaro e dai media presenta, dal punto di vista culturale, dei limiti imbarazzanti.
Per essere riconosciuti poeti, attori, musicisti o uomini di scienza bisogna apparire sul teleschermo o essere citati da una serie di giornali “importanti”. Chi decide chi deve apparire sui teleschermi, però, sono i conduttori e la loro cultura non è tale, spesso, da garantire la qualità delle loro scelte. Gli editori pubblicano i libri firmati da persone note, d’altra parte, proprio perché sanno che i conduttori esalteranno e il pubblico comprerà con facilità particolare solo libri (o dischi o quadri) garantiti dalla popolarità dei loro autori. La selezione, in queste condizioni, non si basa sul merito ma sulla vicinanza con quelli che regolano, dall’alto di un’autorità spesso non meritata, l’accesso all’immaginario collettivo del grande pubblico.
Il problema, ovviamente, non è solo italiano. Riguarda tutte le società occidentali anche se i livelli di cialtroneria che si raggiungono da noi sono spesso inarrivabili se pensiamo alle storie di Sanremo, di Tony
Renis e di Berlusconi musicista. Difficile pertanto pensare a dei rimedi anche se io credo che la valorizzazione di chi ha un talento artistico e delle cose da raccontare dovrebbe passare prima di tutto da un recupero di spazi culturali a livello locale. Potrebbe toccare ai Comuni e alle Province, forse, il compito di creare occasioni per fare incontrare la gente a cui piace fare o ascoltare musica, dipingere o guardare i quadri, scrivere o ascoltare poesie.
Mentre dovrebbe essere compito di uno stato intelligente quello di favorire le iniziative degli enti locali e lo sviluppo di una ricerca non immediatamente collegata allo sviluppo dei consumi e/o all’arricchimento dei produttori. La questione cui ci troviamo di fronte, lei ha ragione, può essere davvero segnalata come la questione di un diritto, troppo spesso negato, di accesso alla pratica delle attività culturali e può essere considerata seriamente come una grande questione politica. Di cui possiamo dire, forse, che ci sarebbe bisogno, per difendere la cultura, di più Stato e di meno profitto. Ponendo limiti, con interventi semplici e saggi, ai danni causati dalla tendenza oggi prevalente alla mercificazione ed alla banalizzazione mediatica dei prodotti culturali.
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