Luoghi di violenza, luoghi reali della malattia dell’anima- l’Unità 06.01.03

Luoghi di violenza, luoghi reali della malattia dell’anima- l’Unità 06.01.03

Gennaio 6, 2003 2001-2010 0

Egregio prof. Cancrini,
leggo su l’Unità del giorno 18/11 una sua risposta ad una lettera di Francisco Mele dopo un viaggio dello stesso in Argentina. Ciò che mi autorizza a scriverle deriva dal mio essere un vecchio lettore de l’Unità con la quale sono «cresciuto» (dai sedici anni ai quasi settanta) ed anche dal conoscerla: da vecchio collega naturalmente.
Considerando appunto lo scrupolo scientifico ed intellettuale che le appartiene mi stupisce, nel suo testo, una certa perentorietà di giudizio e la non tanto velata tesi secondo la quale ci potrebbe essere una relazione tra un certo spirito di rassegnazione degli argentini e la diffusione della psicoanalisi in quel Paese. Per analogia si potrebbe affermare che l’acquiescienza al nazismo da parte dei tedeschi fosse dipesa dalla presenza di Abraham, il primo grande psicoanalista tedesco, collaboratore e allievo di Freud o di Eitingon, il fondatore a Berlino del primo «Istituto Psicoanalitico Pubblico». Con un certo spirito paradossale ci si potrebbe domandare come ha fatto l’Inghilterra a vincere la battaglia della Manica contro Hitler nonostante la importante ed articolata presenza in Gran Bretagna di grandi scuole psicoanalitiche e di psicoanalisti di tenore mondiale come Melania Klein, Anna Freud, Fairbairn, Jones, Glover, Winnicott e altri.
La psicoanalisi come cultura umana dell’essere storico non è promotrice di rassegnazione e si pone anche il compito di metabolizzare l’aggressività da dato pulsionale regressivo e fonte di distruzione, come anche di conflitti inibitori, in civile e liberatoria consapevolezza in grado di permettere all’«Io», sul piano della realtà concreta e sociale, l’uso della propria forza e «potenza sintonica», giustamente funzionale cioè all’essere del soggetto singolo come alla comunità di appartenenza.
Ma c’è un’altra «vexata quaestio» da lei sollevata quando ha affermato la negatività del pensiero e della psicologia freudiana dopo l’introduzione del principio di morte. Freud stesso si rese conto che la sua nuova collocazione della dualità pulsionale, proponendo il binomio di Eros e Thanatos, avrebbe lasciato perplessi allievi e non, proprio nella stesura del suo lavoro «Al di là del principio di piacere».
Ma possiamo mettere «in non cale» questo suo lavoro fondamentale del 1920? Il pensiero di Melania Klein e della sua scuola con tutte le sue varianti non sarebbe pensabile senza il principio della pulsione di morte
. Jacques Derrida in uno dei suoi saggi uscito in Italia non molto tempo fa con il titolo «Speculare su Freud» sottolinea l’aspetto economico discorsivo e testuale del binomio Eros-Thanatos. Da una cosa all’Altra-cosa. L’essere nel tempo e l’esserci per «l’essere nella Morte». I due tempi in uno come pentagramma dello svelamento della temporalità dell’essere, dell’ esserci dell’esistenza. L’impasto pulsionale poi nel quale le due pulsioni si intrecciano e una apre il varco all’altra in una perpetua non disgiunzione garantendo, se il tessuto tiene, il buon funzionamento dell’apparato mentale. Legarsi e staccare mantenendo il passo dinamico della reciproca sussunzione non disgiuntiva. Nella spirale dinamica dei bordi e delle «griglie semantiche» alla Bion le pulsioni si intersecano in una continua «doppia elica» e la pulsione di morte, collimando e colludendo con quella erotica, non è «destrudo» ma curiosità, stimolo, impresa di investimento, espansione dell’Io, forza del desiderio come anche assertività di un Super Io valido e funzionante.
Quando uscì «L’interpretazione dei sogni» (1900) nel frontespizio della prima pagina, sotto il titolo dell’Opera, vi era una citazione in latino: «Flectere si nequeo superos Acheronta movebo» (Se non potrò piegare gli dei o i principii imperanti della “spiritualità attuale” farò muovere, mi appellerò alle forze Acherontiche, alle forze profonde ed a ciò che appartiene al regno dell’Ade, perché non hanno statuto, né luce, né leggi ma esistono nel profondo, nel regno del profondo, dove albergano i guardiani della vita, le
pulsioni appunto che, per ciò stesso sono anche le sentinelle o i satelliti della morte-vita). È difficile dimenticare Heidegger di «la morte è lo scrigno dell’essere». Come sottolinea Derrida la legge de «la vita-la morte» come «legge del proprio».

L’Io ed il suo pensiero sono costretti sovente ad avere una «voce flebile» ma non smetteranno mai di farsi sentire. Questo Io, debole per consistenza ma non per struttura rispetto al Super Io, all’Inconscio ed alla Realtà avrà sempre la forza di emergere nel soggetto proprio grazie alle pulsioni aggressive sublimate che derivano dalla pulsione di morte. La Vita-La Morte. Siamo nel cuore di quanto la cultura europea ha prodotto tra la fine dell’ottocento e del novecento moderno (postmoderno a parte). Da Novalis a Rilke, da Shopenauer a Wittgesstein. Nell’ultima opera Sigmund Freud parla di «Progresso della spiritualità» raccontando e spiegando l’esodo dell’«eletto nomade» popolo ebraico che ha mutato dall’onnipotenza divina la forza aggressiva elaborata ed elevata a biografia spirituale di resistenza e di meta umana nella fedeltà al Libro (La Bibbia). Oggi, negli scenari degli stermini, dei terrorismi palesi e latenti (compresa la guerra preventiva e preventivata dell’imperial-impero dell’economia globale) nei luoghi palesi dove si esercita la violenza nei confronti degli esclusi e degli oppressi (rassegnati o violenti anch’essi) come anche, d’altra parte, seguendo un grave depresso cronico o un tossicomane recidivo non possiamo «negare» la pulsione di morte ma dobbiamo imparare a conoscerla ed a riconoscerla per ripararla nel campo attivo delle cose.
Alessandro Bernath
Medico Chirurgo

Non capita spesso di ricevere lettere così colte e così stimolanti. Mi è sembrato giusto pubblicarla tutta, dunque, con pochi tagli inevitabili ma (spero) non influenti. Limitandomi, di conseguenza, nella risposta.
Per dire, prima di tutto, che la tesi per cui la psicoanalisi è stata utilizzata per proporre una teoria privata della storia (i condizionamenti cui l’essere umano è sottoposto vengono dal suo interno prima che dal suo esterno) non è affatto campata per aria. Ancora oggi, nei paesi ricchi dell’Occidente, la psicoanalisi viene praticata in ambienti molto protetti dal punto di vista economico e sociale. Costa troppo ai pazienti. Richiede, all’analista, un’organizzazione di vita élitaria, non permette a chi si mette in fila per apprenderla di sporcarsi troppo le mani con le forme più comuni e devastanti di patologia. L’umorismo alla Woody Allen sulla psicoanalisi come consumo voluttuario riservato a chi se lo può permettere invece che ai tossicomani o ai pazienti dei dipartimenti di salute mentale, voglio dire, non è del tutto infondato e quello che possiamo dire oggi, a distanza di quasi un secolo da quando essa venne formulata, è che l’auspicio di Freud sulla ricerca di tecniche terapeutiche capaci di superare l’oro puro della psicoanalisi utilizzando leghe meno costose ma altrettanto solide ed efficaci è stato preso sul serio dagli psicoterapeuti che sono usciti dalle società di psicoanalisi più che da quelli che sono rimasti al loro interno. Il che non vuol dire che la ricerca psicoanalitica successiva a Freud non abbia permesso osservazioni fondamentali per tutti sul funzionamento della mente umana e sulla terapia. Il che è importante, però, per dire che molta pratica
psicoanalitica ha rinunciato di fatto alla sua vocazione e al suo possibile impatto «rivoluzionario» sul costume, sulle abitudini e sulle visioni del mondo che essa aveva avuto inizialmente. Adattandosi, con uno scetticismo agnostico di cui la posizione assunta dalla scuola di Berlino al tempo di Hitler e della società psicoanalitica argentina ai tempi di Varela sono espressioni fra le più gravi e le meno comprensibili.
Sull’istinto di morte, in secondo luogo. Per dire che il dibattito esterno o interno alla psicoanalisi ufficiale, non ha mai messo in discussione l’esistenza di pulsioni contraddittorie alla base del sentire e dell’agire umano. Il problema è stato semmai quello di collegare l’aggressività e le tendenze distruttive all’istinto, innato, costitutivo dell’essere umano e al suo patrimonio genetico o alla frustrazione: all’insieme di violenze grandi e piccole, cioè, cui il bambino viene sottoposto.
L’angoscia della persona che diventa dipendente da farmaci o da gioco, da cibo o da potere dipende dalla sua dotazione ereditaria o dalle sue esperienze infantili? Il disorientamento e la difficoltà di strutturare una identità personale da parte del futuro psicotico possono o no essere collegate alle
vicissitudini della relazione madre-bambino nei primi mesi di vita? Personalmente propendo, con Bowlby e con tanti altri, per una ricostruzione ambientalista di tutti i futuri disturbi e squilibri di personalità e
trovo ingombrante nella clinica e poco utile concettualmente il rinvio ad una dinamica pulsionale tutta determinata dall’interno dell’essere umano. Le conseguenze concrete degli atteggiamenti che si assumono di fronte a questo grande quesito sono di fatto enormi proprio dal punto di vista politico. Credere troppo nell’istinto di morte può portare con una certa facilità a trascurare le situazioni concrete
in cui il bambino cresce. Credere, al contrario, nel valore fondamentale delle esperienze realmente vissute dal bambino e dall’adulto lega immediatamente e inscindibilmente la patologia all’ambiente interpersonale e sociale, la pratica della psicoanalisi ad una azione politica sviluppata in una direzione di progresso.
Per ciò che riguarda, infine, il collegamento fatto da Francisco Mele (e da me così «perentoriamente» ripreso) sulla rassegnazione di un intero popolo e sulla diffusione, al suo interno, di una interpretazione psicoanalitica della storia e della realtà, quello che vorrei sottolineare è che lei ha sicuramente ragione nel dire che quella di cui parla Mele è una versione semplicistica di un discorso complesso e vitale che meriterebbe ben altro tipo di riscontro e di partecipazione. Quello su cui mi sembra importante riflettere, tuttavia, è il livello straordinario di diffusione di questa cultura di derivazione psicoanalitica in Argentina
(un paese in cui il numero degli psicologi e degli studenti di psicologia è da anni incredibilmente alto) e la gravità del tradimento operato, in quel paese, dai vertici delle istituzioni psicoanalitiche nei confronti di quei professionisti e di quegli allievi che sono stati perseguitati e uccisi in massa in ragione proprio del loro impegno nel sociale.
Tradimento che non dobbiamo fare noi oggi. Dicendo chiaro che i luoghi delle violenze distruttive sono ancora oggi luoghi, reali, in cui quella che viene costruita con una spietatezza ed una stupidità da bestie furiose è la malattia dell’anima di quello che è oggi un numero enorme di bambini e di ragazzi innocenti e, dunque, sani. Favorendo, dentro di loro, lo sviluppo di una violenza e di una aggressività destinate a spargersi, domani, per le vie del mondo.
Qualcuno dovrà pur dirlo un giorno ai fautori delle «guerre giuste» che le guerre non sono mai giuste soprattutto per questo, per la carica di frustrazione che mettono in moto nei cuccioli di uomo che ne subiscono i danni più o meno secondari e per la carica di sensi di colpa che essi mettono in moto nei più sani fra i cuccioli di uomo che assistono da lontano, da luoghi protetti, al dispiegarsi della violenza senza senso che arma le mani dei loro genitori. Ancora una volta, quello che viene da pensare è che il male capace di avvelenare la vita dell’ uomo e delle masse di cui l’uomo si trova a far parte non è inevitabile.
Dipende dagli errori, politicamente evitabili, che alcuni continuano a fare nel silenzio dei tanti che non fanno abbastanza per impedirglielo.
È un’eresia la mia se dico che c’è un collegamento fra lo stupore doloroso di Freud di fronte alla potenza dell’istinto di morte e lo stupore doloroso da lui personalmente vissuto di fronte ad una guerra atroce di cui non riusciva a darsi pace, di cui non riusciva a capire il senso?

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