L’urlo d’angoscia e la psicoterapia come diritto- l’Unità 17.06.02

L’urlo d’angoscia e la psicoterapia come diritto- l’Unità 17.06.02

Giugno 17, 2002 2001-2010 0

Caro prof. Cancrini,
in tema di diritti negati nel nostro Paese pseudo-civile, vorrei richiamare la sua attenzione su una serie di problemi riguardanti l’assistenza psichiatrica, un campo in cui la negligenza, l’insipienza e il malcostume creano danni gravissimi ai diretti interessati e suscitano sdegno e ribellione in ogni cittadino che sia abituato a valutare i fatti secondo il criterio, semplice ma necessario, di giustizia-ingiustizia, e da questo sia indetto a pesarne la tollerabilità o meno, come è proprio e discriminante di una cultura di sinistra.
Mi rivolgo a lei perché la conosco come persona che ha tutti i titoli, non solo professionali, ma, più largamente, culturali e morali, per capire di che sto parlando. E allora le chiedo:
1) Le sembra giusto che le Asl e i dipartimenti di salute mentale, ormai da anni, lascino, più per scelta che per necessità, la gestione di gran parte delle strutture residenziali terapeutico-riabilitative all’iniziativa privata e che pertanto le erogazioni di risorse ingenti delle Regioni, elargite irresponsabilmente, abbiano messo in moto l’interesse economico di una serie di imprenditori, spesso distanti dall’ambiente psichiatrico, che hanno colto le opportunità di un mercato selvaggio, senza alcuna finalità sociale, ma con
l’unica di trarre profitti illeciti e vergognosi dalla malattia mentale?
2) Che queste strutture siano «accreditate» per lo più per ragioni tutte «privatissime» e innominabili e non in base ad una rigorosa verifica della adeguatezza delle stesse a svolgere seriamente, come leggi e scienza comandano, attività terapeutiche, riabilitative e di risocializzazione dei pazienti, soprattutto giovani, piuttosto che una limitata assistenza materiale, che ha come risultato la «cronicizzazione» ai livelli più regressivi e non il «cambiamento»)
3) Non le sembra perlomeno ambiguo il termine «protetta» con cui vengono definite tali strutture, perché non si sa chi deve essere protetto, se il malato o la società, da chi e da che cosa? E questa «protezione», in uno è spazio sostanzialmente chiuso, in un tempo che non è quello «fluido» e segmentato della interattività sociale e affettiva, ma è il tempo terribile e vuoto della ripetizione ossessiva e coatta di fatti di minima ordinarietà, non riproduce l’idea e il ruolo dei vecchi manicomi, con il rischio della prolungata o definitiva «residenzialità», che altro non è che «l’espulsione» del malato dalla cerchia dei «sani-normali», come sempre è stato?
4) Le sembra giusto che, disturbi che oggi vengono definiti dalla scienza di natura «multifattoriali», vengano «curati» (ovvero «silenziati» nei sintomi e nella comunicazione emozionale e autoriflessiva) quasi esclusivamente con terapie farmacologiche, spesso con massicci «effetti collaterali indesiderati», invece di mettere in atto strategie «multidisciplinari», con una équipe che operi sincronicamente e criticamente, utilizzando saperi e competenze diverse e complementari, con l’obiettivo di recuperare la soggettività del
malato nella sua dignità, nella sua capacità sia pur limitata, di agire una propria esistenza, non totalmente svuotata di senso, di progettualità, di speranza? Gradirei una sua risposta a questi inquietanti interrogativi, non foss’altro come segno della possibilità di una battaglia di civile solidarietà che metta in discussione, ancora una volta, l’esistenza. M. Santa Del Buono

Sono pienamente d’accordo con lei. In tema di diritti negati, i pazienti psichiatrici gravi continuano ad essere la testimonianza di una situazione che è, a tutti gli effetti, pseudocivile. Non tutti e non dappertutto perché molta acqua è passata sotto i ponti dal tempo della riforma voluta da Franco Basaglia. In una serie di situazioni ancora enorme, però. Perché le cose che non funzionano sono ancora veramente troppe. E perché ancora se ne parla, purtroppo, troppo poco. Partirei, per farlo almeno qui, dalla osservazione che lei fa sull’origine multifattoriale del disturbo e sulla proposta di cure con cui lo si affronta abitualmente. Silenziare i pazienti, come lei nota assai efficacemente, sembra lo scopo fondamentale di molte terapie solo o prevalentemente farmacologiche proposte oggi dai servizi di salute mentale e da molte case di cura convenzionate. Con costi enormi perché i farmaci sono sempre più costosi e impongono controlli clinici continuativi per gli effetti indesiderati che provocano ma soprattutto perché le terapie basate sul tentativo di «silenziare» un paziente psichiatrico sono per definizione eterne. L’urlo che chi sta male si porta dentro, infatti, può essere soffocato per tempi più o meno lunghi dalla
terapia farmacologia. Il tempo che passa senza che nessuno sia capace di dare parole al dolore della persona che si nasconde dietro ai sintomi funziona come un elemento progressivamente più drammatico di aggravamento del suo disturbo. La ricerca scientifica ed il buonsenso propongono con chiarezza la
contraddittorietà insostenibile di una situazione in cui, possibile solo per chi può pagarla, rimborsata solo alle famiglie dei parlamentari e dei dirigenti d’industria, la psicoterapia è negata alle persone normali. Nella multifattorialità del disturbo psichiatrico, l’elemento psicologico è comunque fondamentale. Concretamente, un diritto negato che sarebbe invece fondamentale riconoscere a tutti i pazienti psichiatrici è il diritto alla psicoterapia. Capace di affiancare e di rendere efficaci, connotandoli con intelligenza anche gli interventi farmacologici.
Una proposta di legge in tal senso, forte di 40.000 firme raccolte in mezzo alla gente, è stata presentata mercoledì 12 giugno al presidente del Senato, Marcello Pera, che ha dimostrato un notevole interesse per questa iniziativa assicurando il suo convinto sostegno al suo iter parlamentare, da un gruppo di parlamentari e di studiosi. Adriano Ossicini, Giovanni Bollea, il sottoscritto e molti altri hanno partecipato alla stesura di un testo che immagina di potenziare i servizi offrendo loro la possibilità di sostenere economicamente l’accesso alla psicoterapia presso terapeuti accreditati per i pazienti che ne hanno bisogno e che non hanno la possibilità di essere seguiti a questo livello nel servizio stesso.
La situazione dell’assistenza psichiatrica nel nostro Paese è molto diversa da luogo a luogo, infatti. Accanto a servizi che già offrono occasioni psicoterapia, altri ve ne sono (la maggioranza!) che non
sono in grado di offrirla: negando, ai loro utenti, una possibilità reale di cambiamento. Molti studi già esistono, in Europa, negli USA e nei paesi latino-americani, che dimostrano, senza possibilità di equivoci, il modo in cui questo tipo di intervento, affidato a professionisti capaci, diminuisce drasticamente il numero e la durata dei ricoveri, il numero e la durata dei trattamenti farmacologici. Usando il suo termine, dare voce al paziente e alla sua famiglia, significa non avere più bisogno di silenziarli. Con effetti importanti sulla salute perché i vantaggi dei trattamenti psicoterapeutici o anche psicoterapeutici nel medio e nel lungo termine sono di fatto enormi. E con effetti importanti anche sui costi dell’assistenza psichiatrica. In
Germania, dove la pratica psicoterapeutica sovvenzionata dal sistema sanitario pubblico è accessibile ormai da quindici anni, i costi complessivi dell’assistenza psichiatrica iniziano a diminuire mentre sono in aumento vertiginoso in tutti in paesi, come il nostro, in cui il mercato degli psicofarmaci si espande in modo sostanzialmente incontrollato proprio perché essi vengono usati non già come coadiuvanti di un intervento terapeutico che riconosce l’origine multifattoriale dei disturbi psichiatrici ma come
strumenti utili a «silenziare» l’angoscia di chi sta male.
Il problema più importante per me, cara signora Del Buono, è un problema di ordine culturale che ha a che fare soprattutto con la qualità dell’assistenza. Che i servizi siano privati o pubblici è, per me, assai meno importante. Pubblico era, a suo tempo, l’ospedale psichiatrico superato, oggi, sulla base delle battaglie culturali e politiche di Franco Basaglia.
Private erano strutture come Chestmut Lodge (la clinica in cui per la prima volta si provvide ad un intervento davvero multifattoriale su pazienti psichiatrici gravi) o il gabinetto del dottor Freud che esercitava la sua professione a Vienna. Il che non vuol dire, ovviamente, che l’assistenza psichiatrica debba essere lasciata nelle mani del privato e della sua voglia di guadagno. Il che vuol dire, però, che non basta dire pubblico per dire corretto e ben fatto e privato per dire speculazione e violenza. Un sistema sanitario intelligente oggi deve basarsi essenzialmente, a mio avviso, su due principi fondamentali: il riconoscimento al pubblico del diritto-dovere di organizzare l’assistenza e di governare le risorse ed il riconoscimento di una pari dignità ai servizi pubblici e privati che debbono erogarla. L’accreditamento va
inteso, in questa direzione, come un insieme di procedure che permettono l’inizio dell’attività e che ne sorvegliano metodicamente dopo il livello, la qualità, i risultati. Come un riconoscimento, cioè, che va meritato e confermato ogni giorno: nell’interesse primario del paziente e della sua famiglia. Nella proposta di legge presentata al presidente del Senato di cui parlavo più sopra, sarebbe (sarà?) il servizio pubblico quello che autorizzerà l’accesso alla psicoterapia di un certo paziente o di una certa famiglia
e che ne controllerà successivamente l’esecuzione e l’esito. Mettendo alla portata dell’utente risorse che gli sarebbero restate altrimenti inaccessibili.
La riforma di cui c’è bisogno in questo momento è, prima di tutto, una grande riforma culturale. Sostituire un’ottica medico-psichiatrica con un’ottica psicoterapeutica significa centrare il propriointeresse sulla persona invece che sui suoi comportamenti, sulle sue risorse anziché sui suoi sintomi. Perché questo accada, quella che deve nascere è la forza di una protesta come la sua. Occorre dire a chiare lettere e in tutte le sedi che «silenziare» l’urlo di una persona che sta male non è soltanto un errore, è un piccolo, ma per molti versi spaventoso, crimine di pace. Contro cui occorre far crescere una ribellione capace di esprimere proposte concrete: cose da fare domani perché è davvero possibile, oggi, far sì che il cambiamento avvenga in fretta

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