L’urlo di Nanni Moretti e la rappresentanza- l’Unità 11.02.02
Caro Cancrini,
la forte provocazione di Nanni Moretti a piazza Navona di sabato scorso, ha sollecitato molte reazioni. La nostra prima riflessione è stata: «Bene forse questo urlo fa finalmente smuovere qualcosa». E non avremmo neanche pensato di scrivere, se non fossimo stati colpiti dalle risposte di alcuni nostri dirigenti. In particolare quella di Rutelli che ci è sembrata emblematica del dramma che stiamo vivendo. «È sempre utile che un intellettuale parli e dica come la pensa.
Naturalmente non è detto che un intellettuale sia anche un bravo politico e seguirlo non è d’obbligo».
Questa frase che speriamo non rappresenti tutti i nostri dirigenti dell’Ulivo, dimostra come «questa politica» dei professionisti sia lontana e distaccata dal comune sentiredi tutti noi e incapace di ascoltare
la voce di un artista che proprio per la sua sensibilità è l’interprete migliore dell’animo della gente. Ci auguriamo che la riflessione del poi possa essere utile per comprendere come dall’intervento di Nanni Moretti emerga la ineludibile necessità di ricostituire il legame tra chi ci rappresenta e noi. Il rapporto di rappresentanza non è una vuota forma della democrazia, ma ne è l’essenza. Chiudere l’ascolto, la comunicazione, significa rappresentare solo se stessi. Per questo siamo solidali con Nanni Moretti.
Cordialmente,
Alfonso, Vittoria Frittelloni
Rachele Pepe
Nicola Tranfaglia ha scritto su questo giornale, martedì scorso, che la ragione vera dell’urlo di Moretti sta nelle difficoltà del militante medio che tenta di portare il suo contributo alla elaborazione di una linea politica dell’Ulivo.
Abituati a consultarsi (ed a scontrarsi) soprattutto fra loro, i vertici del centrosinistra hanno in realtà
pochissime occasioni di confronto con i loro elettori. Quello che più preoccupa, sembrano poco disposti ad ammetterlo. Come accade regolarmente in situazioni di questo tipo, dunque, l’urlo diventa insieme necessario e liberatorio. Come voi giustamente notate.
Poiché nulla accade di completamente casuale nella vita e nella storia di un gruppo, quella cui occorre porre mano, tuttavia, è una riflessione paziente sulle ragioni dell’impasse che si è determinata nella comunicazione fra rappresentanti e rappresentati. Senza pretendere di essere esauriente, io ne indicherò qui due che mi sembrano fondamentali. A livello, almeno, di esperienza mia.
La prima, di ordine organizzativo, riguarda la mancanza, oggi di fatto assoluta, di strutture in grado di
promuovere e di rendere utile il dialogo fra rappresentanti e rappresentati. C’erano una volta le commissioni (sanità, trasporti, esteri, interni, emigrazione, welfare, stampa e informazioni e via dicendo)
organizzate a livello nazionale, regionale e locale. I militanti di base e i tecnici, compresi i cosiddetti
intellettuali (cioè i rappresentati) potevano farne parte con una certa facilità e usarle per esprimere
giudizi, per costruire ipotesi e proposte. I rappresentanti ricevevano dal lavoro di queste commissioni,
o sezioni, suggerimenti fondamentali per l’impostazione del loro lavoro e trovavano lì sedi appropriate per la discussione dei problemi da affrontare in Parlamento e nei consigli regionali o comunali. E su questa tessitura paziente di incontri e di scambi di idee che l’opposizione costruì, fino ai primi anni 90, una sua visibilità concreta ed una sua capacità di incidere sui destini del nostro paese. È sulla scomparsa di questa organizzazione capillare che si è determinata quella mancanza di comunicazione reale fra rappresentati e rappresentanti che rende così irreale, fragile e difficile da sostenere il gruppo dirigente dell’Ulivo di oggi.
Contrastarla e superarla, da domani in poi, chiede però qualcosa di più dell’incontro una tantum con un insieme non ben precisato di cosiddetti «intellettuali»: chiede decisioni organizzative (un governo ombra) e attribuzioni chiare di responsabilità. Uscendo da una situazione in cui quando Livia Turco, Rosy Bindi, Salvi o Castagnetti parlano di droga o di ospedali, di lavoro o di fecondazione artificiale nessuno può sapere se parlano come dirigenti dei Ds, della Margherita o dell’Ulivo e in cui nessuno sa i criteri con cui vengono scelti gli esperti con cui si consultano (se lo fanno) i leader e i gruppi parlamentari del centrosinistra. Bisogna partire da qui, evidentemente, dalla attribuzione di incarichi e responsabilità precise a persone bene individuate, per mettere in moto un processo di organizzazione delle strutture che dovrebbero aprirsi loro, al rapporto con i rappresentanti. Che non debbono essere usati solo come comparse per i bagni di folla del leader ma, sempre di più, come interlocutori capaci di dare un contributo alla elaborazione di proposte utili: all’Ulivo e al paese. Io ho personalmente stima di Rutelli e Fassino, con cui ho avuto modo di collaborare in vari modi in passato. Sono davvero spaventato, tuttavia, dal fatto che tutti e due parlano e rispondono a Moretti come se questi problemi non esistessero. Come se quelli che io, e tanti altri, proponiamo fossero problemi rispetto a cui non occorre neppure esprimersi. La seconda ragione, per certi versi ancora più importante, è legata ad una questione di contenuti: il mondo è diviso oggi, nei fatti, fra le scelte politiche legate al liberismo e quelle legate al movimento degli ecologisti e dei new global (un nome che ha esordito a Porto Alegre e che mi sembra più appropriato di
quello tradizionale dei no global).
Non tenere conto del fatto che quelle che si stanno confrontando sono due diverse visioni del mondo, due ipotesi diverse difficilmente conciliabili dello sviluppo rischia di tagliare fuori dalla storia e dall’azione politica reale un intero gruppo dirigente. Quello che è difficile capire, a livello di base, è come possa un insieme di forze politiche legate alla sinistra non prendere posizioni chiare su questioni di questo livello.
Partecipare alle manifestazioni di Porto Alegre e a quelle che si tengono in piazza anche da noi con alcuni rappresentanti che non vengono né approvati né disapprovati da un vertice che se ne astiene, sembra a
molti un modo di tenere i piedi in due staffe. Dà l’idea di un gruppo di dirigenti che non si rende conto del grande vento di destra che sostiene, in questa fase della storia del mondo, scelte politiche comuni a gran parte dell’Occidente. Legando la prima alla seconda questione, la domanda più seria è: qual è il luogo, la sede, di partito o di Ulivo in cui i militanti di base (i rappresentati) che hanno delle perplessità sul modo in cui una maggioranza del centrosinistra ha sostenuto le scelte di Bush in Afghanistan possono discutere con i loro leader(i rappresentanti)?
Ha davvero senso ancora oggi un congresso in cui, invece di misurarsi su questi temi, ci si conta per decidere chi comanderà (rappresenterà) di più? Richiamare alla politica attiva quelli che se ne sono usciti o fuggiti, costruire occasioni di dialogo con i giovani e i giovanissimi passa attraverso la capacità di riproporre temi di questa ampiezza. Dicendo la propria, com’è giusto, ma senza sentirsi offesi se la maggioranza dei rappresentati non condivide le scelte che sono state fatte. Accettando l’idea di tirarsi indietro se la propria posizione dovesse diventare minoritaria.
Un dirigente del Partito comunista, Luigi Petroselli, da cui mi è sembrato di aver imparato molto, diceva
sempre che se si sentiva perplesso, se non sapeva che giudizio dare o che posizione prendere la prima cosa che gli veniva di fare era di lasciare la macchina e di andare in Federazione con il tram. Lì, diceva, avevo modo di ascoltare e di guardare il problema da un altro punto di vista: diverso da quello dei compagni di sempre.
Cose analoghe aveva detto molti anni prima Mao Tse Tung insegnando ai quadri che volevano fare politica. È assurdo o offensivo chiedere ai nostri rappresentanti di riflettere su questo consiglio? Nanni Moretti, in fondo, non ha fatto un discorso da intellettuale, ha parlato a braccio, da persona qualunque. Ed è stato utile in fondo, proprio per questo.
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