Perché San Patrignano non può gestire un carcere- l’Unità 14.01.02

Perché San Patrignano non può gestire un carcere- l’Unità 14.01.02

Gennaio 14, 0202 2001-2010 0

Caro Luigi,
ho appena letto il tuo commento alla lettera di Saletti, il quale si fa portavoce delle polemiche suscitate del ministro Castelli di affidare la gestione di una struttura carceraria alla comunità terapeutica di San Patrignano.
Come sai lo scorso 20 dicembre presso l’Istituto Superiore di Studi Penitenziari del Dipartimento
dell’Amministrazione Penitenziaria del ministero della Giustizia, è stata organizzata una giornata di studio nell’ambito di un progetto di formazione interprofessionale, indirizzato agli operatori del circuito penitenziario a trattamento differenziato delle tossicodipendenze e finalizzato allo sviluppo delle metodologie di intervento in ambito carcerario: vi hanno partecipato i direttori e i collaboratori di istituto,
gli educatori responsabili dell’area pedagogica, i direttori del servizio sociale, i direttori sanitari, i comandanti di reparto di polizia penitenziaria, alcuni rappresentanti dei SerT e dei didatti impegnati nella realizzazione del programma formativo, gli uffici del Dap.
La giornata si è svolta a conclusione di un’azione formativa realizzata nel corso dell’anno con questi operatori, per fare il punto sul lavoro svolto e pensare a come proseguirlo. Poiché all’incontro hai partecipato anche tu, hai avuto modo di ascoltare molti degli interventi e le relazioni introduttive della giornata di studio. Questo mi consente di andare subito al punto e porti una questione.
Attualmente l’ordinamento carcerario prevede il regime di custodia attenuata per favorire, nel periodo di detenzione, una condizione di vita più rispettosa delle esigenze della persona. Il fine è quello di agganciare il detenuto tossicodipendente, cercando di trasformare il tempo della pena in tempo di terapia. Il regime di custodia attenuata si è potuto realizzare attraverso la costituzione dell’istituto di custodia attenuata e trattamento terapeutico in sezioni degli istituti di pena appositamente predisposte. All’istituto della custodia accedono i detenuti che ne fanno richiesta,
previo colloquio clinico valutativo della motivazione all’ingresso. Si distinguono tra coloro che, in considerazione della durata della pena, intendono seguire un percorso di tipo comunitario nell’istituto e quelli che, in virtù del fine pena, a breve termine, si preparano, attraverso i contatti col SerT, all’ingresso presso una comunità terapeutica. I primi rappresentano il grosso degli utenti di queste strutture, spesso già reduci da diverse esperienze in differenti comunità e fortemente demotivati ad un nuovo ingresso in Ct. Spesso hanno già usufruito nel passato di pene alternative al carcere, ma non intendono ripetere un percorso terapeutico in comunità.
Ebbene, questo mi sembra un punto importante della questione: la custodia attenuata si differenzia da una pena alternativa al carcere. Forse potremmo definirla come una forma alternativa di pena nel carcere. È una differenza abissale, di cui non possiamo non tenere conto. Si tratta di ambiti d’intervento profondamente diversi, di contesti tra loro così differenti che non possono essere portati insieme, tout-court: il rischio è quello di commettere un errore di tipo logico.
È errato tentare di espropriare un intervento terapeutico del suo territorio: fuori dal contesto che ad esso dà senso l’intervento perde di significato, così come avviene con ogni comportamento umano.
Coniugare il carcere con la comunità terapeutica, è questa la questione? Il problema si risolve solo affidando altre strutture a custodia attenuata ad altre Ct? Le pene alternative al carcere resisteranno a questa trasformazione? Si vogliono ridurre gli affidamenti alle Ct?
L’obiettivo è quello di spostare il trattamento dalle comunità al carcere, affidandone alcune strutture ai privati, al personale di quelle che diventeranno le future ex Ct? La questione è l’affidamento a San Patrignano della struttura di Castelfranco o di dare in gestione gli istituti a custodia attenuata ai privati? L’idea del ministro è quella di una gestione mista? Come si intende organizzare la struttura? Quali sono gli obiettivi, le ipotesi, i metodi e gli strumenti di lavoro previsti? Poiché la si definisce un’iniziativa sperimentale a quale sistema di verifica verrà sottoposta?
Uno dei punti critici intorno ai quali si annodano le diverse strategie per il trattamento del tossicodipendente con problemi giudiziari è identificabile nella difficoltà a coniugare la questione della pena con la questione del recupero e della riabilitazione. A questo proposito, nel tuo intervento alla giornata di studio organizzata dall’Issp, hai sollecitato gli operatori degli istituti a custodia attenuata a raccogliere dati ed a pubblicizzare la loro esperienza ed hai concluso affermando che forse, proprio attraversol’esperienza del trattamento in carcere dei soggetti dipendenti, può prendere corpo un’idea nuova di carcere moderno. Hai aggiunto che, paradossalmente, è più facile per un operatore fare un lavoro di responsabilizzazione della persona dal carcere, perché può più facilmente solidarizzare con lei senza mettere in discussione l’utilità della pena. Forse da qui si può partire, per un ragionamento più compiuto su questa iniziativa annunciata dal ministro e di cui si sa troppo poco.
Cordiali saluti.
Francesco Colacicco
Servizio Speciale di Terapia
Familiare e Tossicodipendenze

Caro Francesco,
ti ringrazio della tua lettera che mi consente di tornare con qualche precisazione importante su un tema di difficile inquadramento e di formulare, al termine, una proposta su cui sarebbe importante, sentire oggi soprattutto l’opinione di chi ha responsabilità di governo nel nostro paese.
La prima precisazione da fare riguarda i criteri su cui si basa oggi il giudice di sorveglianza per stabilire se un detenuto tossicodipendente può usufruire di una pena alternativa o se deve scontare la sua pena in un carcere a custodia attenuata. Il principale di tali criteri è, come ben sai, l’entità della condanna perché il regime di pena alternativa è riservato ai tossicodipendenti che sono stati condannati ad una pena non superiore ai quattro anni. Raccogliendo una proposta già popolare da tempo nel mondo dei servizi, l’on. Giovanardi ha proposto di recente l’idea per cui questo limite deve essere abolito o modificato. Questo, dunque, è un problema che potrebbe andare a soluzione rapidamente, se i fatti corrispondessero
alle parole, perché dal centrosinistra, ne sono certo, non verranno posti ostacoli ad una proposta di questo tipo.
Il problema successivo, di cui tu giustamente sottolinei la serietà, è quello che riguarda le differenze, di fatto molto grandi, fra carcere, seppure a custodia attenuata e comunità: differenza apparentemente sottovalutata, oggi, dalla decisione di affidare a San Patrignano la gestione delle strutture carcerarie di Castelfranco.
Ho già avuto modo di sottolineare la settimana scorsa l’idea per cui, in effetti, il clima che si respira in una
struttura comunitaria è caratterizzato prima di tutto della volontarietà dell’ingresso (anche a San Patrignano dove, secondo i dati forniti da Paolo Guidicini Pieretti, una percentuale importante e sicuramente inferiore al 50% di quelli che entrano esce senza aver completato il programma mentre gli altri restano perché hanno deciso di restare)e dalla libertà di andarsene in qualsiasi momento (anche se a San Patrignano si è ritenuto sbagliando, in alcuni casi, di poter sospendere questa seconda libertà) e che questo tipo di clima è difficile da riprodurre in carcere dove si entra e si resta sulla base di una decisione presa dal magistrato. Andando nel pratico e facendo un discorso molto banale, l’operatore di comunità propone un insieme di attività (di lavoro in squadra, di meditazione, di scambio interpersonale, di terapia, di coinvolgimento in orari comuni) che l’ospite non può rifiutare perché se non partecipa in modo responsabile alla vita della Comunità rischia di essere espulso. Sta nella dialettica che si apre a questo punto fra un desiderio enunciato a parole di cambiare investendo in Comunità e la durezza dello sforzo richiesto per farlo davvero il motore reale del percorso che l’utente fa nel corso della sua permanenza in comunità: incontrando le sue resistenze al cambiamento e soprattutto con l’aiuto di chi parla con lui, i limiti posti dalla realtà dei fatti e delle difficoltà rapporti interpersonali al sentimento, cui spesso le sue decisioni si ispirano, di poter fare tutto, di non avere regole o limiti da rispettare. Forzandosi, su questa strada, ad un ripensamento delle scelte fatte in passato e ad una rivisitazione dei suoi progetti per il futuro.
Difficile, sicuramente assai difficile, utilizzare questo tipo di clima e di dinamismo interpersonale per chi lavora con i tossicodipendenti all’interno di un carcere a custodia attenuata. Il tentativo di scandire il tempo utilizzandolo all’interno di attività utili alla presa di coscienza e alla ricerca di una nuova immagine di sé stessi può essere eluso facilmente con il rifiuto (di fronte a cui non si può proporre certo l’espulsione) o con una adesione di facciata: «Lo faccio perché me lo chiedi, per non avere seccature, per non discutere con te».
Quello che cade, in tutti e due i casi, è il presupposto, l’elemento fondante, cioè, dell’esperienza comunitaria.
Perché la vita comunitaria viene sempre in qualche modo «scelta» e perché la vita in carcere è sempre, inevitabilmente, una cosa che viene prima di tutto «subita».
Sembra chiaro a me, guardando al problema da questo punto di vista, che affidare ai responsabili di San Patrignano (è di qualunque altra Comunità) la gestione di un carcere a sorveglianza attenuata sarebbe una scelta che dimostrerebbe soprattutto la grande superficialità di chi la prende.
Assai più serio mi sembrerebbe, tenendo conto delle esperienze già portate avanti ormai da molti anni in 14 strutture di questo tipo, tentare una valutazione seria e approfondita dei risultati di questa grande sperimentazione, dei suoi punti critici, delle sue difficoltà. Ascoltando i tecnici che in essa sono stati impegnati e che noi abbiamo avuto modo di incontrare nel corso del seminario di cui tu parli nella lettera. Proponendo successivamente a chi ha avuto la possibilità di lavorare con dei tossicodipendenti in regime di pena alternativa, a San Patrignano ed altrove, occasioni di incontro utili, prima di tutto, per un scambio concreto di esperienze. Nella convinzione o nella speranza che lo scambio sia utile agli uni ed agli altri. Senza insinuare cioè, come di fatto si finisce per fare oggi, che le esperienze fatte in un altrove mitico (il San Patrignano dello show televisivo) siano talmente migliori di quelle fatte a Sollicciano, a Eboli o a Giarre da rendere necessario semplicemente questo: l’affidamento a dei privati «bravi» di un sistema carcerario «pubblico» che non funziona. Affermazioni insinuazioni di questo tipo sono false, infatti, non perché il privato sociale non ha lavorato bene con i tossicodipendenti che scontano pene alternative ma molto più semplicemente perché la Comunità e il carcere sono due cose diverse. Anche se la Moratti e la Rai non se ne accorgono.
Venendo alla proposta della quale davvero sarebbe bello discutere a lavorare, quello di cui ci sarebbe bisogno, secondo me, è una impostazione davvero diversa del discorso legato alla sanzione penale. Centrata ancora su un principio di tipo quantitativo per cui l’entità della pena dipende dalla qualità e dal peso del reato, la somministrazione delle pene dovrebbe mettere al centro, in una prospettiva più coerente con l’intenzione riabilitativo del legislatore, la persona di colui che lo commette. Correttamente interpretata come la spia di un disagio importante delle persone, la tossicodipendenza ha aperto una strada importante in questa direzione. Il cammino da fare è ancora molto arduo e complesso, tuttavia,
se si volesse affermare il principio per cui il compito del magistrato e di chi opera nel sistema carcerario è prima di tutto quello di mettere in moto un processo di cambiamento. Utilizzando anche la costruzione, che spesso ne costituisce un ingrediente necessario, all’interno di un progetto capace di tenere conto insieme dell’importanza di quello che è accaduto, del danno arrecato a un terzo e delle risorse presenti comunque in colui che ha sbagliato.
Si potrebbe partire per iniziare una discussione di questo tipo, lo ripeto qui ancora una volta, da una verifica scientificamente fondata di quello che è accaduto nel corso di questi anni. Facendo davvero cultura e non propaganda politica su quello che è accaduto con i tossicodipendenti che hanno commesso reati in Italia negli ultimi anni.
Riconoscendo a San Patrignano e alle altre Comunità i risultati, a volte straordinari, che sono stati ottenuti
ma guardando, con la stessa attenzione e con lo stesso rispetto, alle esperienze portate avanti nelle carceri a sorveglianza attenuata. E parlando solo alla fine di questo confronto della necessità di una programmazione razionale degli interventi e di una verifica scrupolosa della possibilità di ritornare sulle attuali disposizioni di legge.

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