Quando l’unica via sembra l’internamento- l’Unità 31.12.01
Chi scrive è una mamma disperata che ha tanto bisogno di aiuto… Disperata in quanto sola e ad un bivio. Non so più cosa fare per risolvere, o almeno alleviare, il mio dramma.
Vorrei tanto addormentarmi con lui senza fare più risveglio. A volte penso anche a gesti estremi… «litigando» spesso con Dio.
Lui è Francesco, ha 18 anni ed è affetto da «Sindrome Autistica con ipercinesia»: la diagnosi risale al suo terzo anno di vita. Ed è quello l’anno in cui è iniziata la nostra battaglia con le istituzioni.
Francesco nel 1986 aveva diritto ad una sola ora d’inserimento nella Scuola Materna, per cui fino al
1990 ha usufruito solo di questo.
Alle elementari ci siamo imbattuti nella mancanza dell’assistenza igienica. Quella che a casa era diventata una conquista (l’eliminazione del pannolino), a scuola è diventato un problema. Se Francesco «si sporcava» nessuno provvedeva alla sua igiene, se non io recandomi a scuola.
Dopo quattro anni di lotte e denunce ai vari enti, sono riuscita ad ottenere l’assistenza solo al quinto anno. Il dramma è continuato alle medie: l’assistenza che la scuola sosteneva a Francesco, l’avrebbe dovuta assicurare l’Ente Comune.
Ovviamente il Comune si rifiutava di fornire aiuto. Si pensi che nel 1997, per circa un mese, ho provveduto ad affiancare l’insegnante di sostegno nel tentativo di trasmettere al docente le tecniche Lovas apprese da un medico americano, ad un corso specifico a Siena. La situazione diventa insostenibile al punto di ritirare Francesco dalla scuola e di esporre denuncia alla Procura della Repubblica sperando nella giustizia. Ma l’ingiustizia arriva con l’archiviazione della pratica, con sentenza «denuncia archiviata per mancanza di reati». Avrei voluto/dovuto ricorrere al Tar, ma gli avvocati non fanno volontariato.
Oggi Francesco (alto un metro e ottanta con corporatura robusta) vive con una mamma e un papà
stanchi e sfiduciati ai quali nessun ente fornisce assistenza. Questo perché le strutture esistenti non erogano servizi di assistenza a ragazzi autistici iperattivi e autolesionisti, per i quali è «indispensabile» il rapporto «uno a uno».
A titolo di esempio cito l’ultimo caso di «presa in giro» di cui siamo stati protagonisti. Premetto che gli
istituti specializzati per ragazzi autistici sono davvero pochi in Campania.
A quindici chilometri da casa nostra ne esiste uno al quale ci siamo rivolti chiedendo un «semi internamento» (assistenza dalle 9 alle 12). La prima difficoltà che hanno esposto è stata relativa al trasporto: Francesco non poteva viaggiare nel pulmino in quanto mancava un accompagnatore. Ci siamo, quindi, subito attivati per risolvere il problema. Trovata la soluzione (a nostra spese) è emersa la verità. Il centro non voleva farsi carico dell’assistenza a Francesco.
O meglio lo avrebbero fatto qualora noi avessimo trovato un altro ragazzo autistico o avessimo ottenuto dalla Regione un contributo che permettesse alla struttura di dedicare una risorsa a Francesco, in rapporto uno a uno. Questa è l’ennesima porta chiusa in faccia al nostro ragazzo. Noi abbiamo anche un’altra figlia, di nove anni, che spesso mi chiede: «Mamma, quando ti accorgi che esisto anche io?». Allora mi chiedo: cosa fa lo Stato per tutelare un ragazzo come Francesco che vive questa realtà? E, dunque, oltre che denunciare continuamente i fatti, cos’altro possiamo fare?
Giuseppina Maresca, Salerno
Ho qui davanti a me la sua lettera mentre i giornali cominciano a passare nelle pagine interne le notizie relative al rogo di San Gregorio Magno. Spunto migliore non potrebbe esserci per affrontare il tema che lei propone con tanta chiarezza a proposito di suo figlio. Perché il diritto alle cure dei portatori di un disagio psichico grave che arriva ad una condizione di cronicità è un diritto di fatto non riconosciuto e perché le due tragedie, quella segnalata da lei e quella pubblica verificatasi nei giorni scorsi, hanno la stessa origine e, sostanzialmente, lo stesso significato.
C’era una volta l’entusiasmo riformatore di Franco Basaglia. Ho un ricordo caro del suo attivismo sorridente, della sua volontà di ferro, del suo bisogno di trovare sbocco concreto per delle idee forti dal punto di vista scientifico, etico e politico. È stato un tempo straordinario quello legato al superamento dei manicomi e al riconoscimento del diritto di esserci, di esistere, di contare per pazienti di cui il manicomio decretava l’emarginazione (sempre) o la morte civile (spesso). Quando la legge voluta da Basaglia venne approvata in Parlamento e divenne legge dello Stato, tuttavia, quello che venne compiuto sull’ onda dell’entusiasmo fu un errore di sottovalutazione dei problemi che si sarebbero determinati nel momento della sua attuazione: errore di cui Basaglia fece appena a tempo ad accorgersi e a discutere prima di morire.
Eravamo allora nel 1980. Ventuno anni fa. Quello che è accaduto poi è sotto gli occhi di tutti. Perché lo spostamento sul territorio delle risorse di personale attivo in precedenza dentro gli ospedali psichiatrici e lo sviluppo progressivo dei centri di salute mentale ambulatoriali ha permesso sicuramente di arrivare alla costituzione di una rete di servizi presenti oggi in tutto il territorio nazionale e perché questo tipo di organizzazione ha dovuto fare i conti, però, con un aumento drammatico, a volte esplosivo, della domanda di aiuto psichiatrico. Finché la risposta dei servizi era basata sul ricovero, infatti, le richieste erano limitate alle situazioni più gravi. Nel momento in cui la tipologia delle risposte si è arricchita di nuove possibilità (di ordine psicologico e psicoterapeutico da una parte, di ordine psicofarmacologico dall’altra) la percezione e la presentazione allo specialista di sintomi lievi o medi è diventata sempre più frequente. Sul grande mercato dell’assistenza, questo ha corrisposto allo sviluppo di un impegno massiccio dell’industria farmaceutica (la produzione e la vendita di antidepressivi hanno rappresentato, secondo gli economisti, uno dei più grandi affari del secolo) e dell’offerta di psicoterapia. Con un aggravio rapidamente vertiginoso delle richieste portate al servizio pubblico: garante, di fatto, della gratuità delle cure.
Non voglio discutere qui, di fronte ad una lettera come la sua, la validità di questa impostazione e i falsi movimenti cui essa ha dato luogo. Quello che mi interessa in questa sede, infatti, è il modo in cui questo sviluppo enorme della domanda di aiuto psichiatrico ha finito per distogliere l’attenzione dai pazienti più gravi. Quelli che non danno soddisfazioni o che ne danno di minime al termine di interventi costosissimi (sul piano umano come su quello economico) e di lunga o lunghissima durata: i «cronici» appunto, di cui si può dire sbrigativamente: (a) che non hanno reagito in modo abbastanza positivo a terapie che comunque hanno ricevuto per alcuni anni; (b) che non danno speranza di miglioramenti significativi, nel lungo o nel medio periodo.
Il destino di molti di questi pazienti è, purtroppo, quello indicato dalla sua lettera e dalla tragedia di San Gregorio. I più giovani, quelli che possono contare sull’amore e sulla capacità di sacrificio delle famiglie vengono abbandonati troppo spesso dal servizio a casa loro determinando situazioni inaccettabili del tipo di quello che lei descrive. I più anziani, quelli che sono completamente soli, vengono abbandonati troppo
spesso dal servizio in strutture del tipo di quella che ha fatto parlare di sé nel momento in cui è andata a fuoco: strutture sul cui funzionamento normale è più conveniente, infatti, stendere un velo di silenzio e di cui ora tuttavia un progetto allo studio del nuovo governo prevede la rapida moltiplicazione.
Se ne può uscire? Il pessimismo della regione contraddice qui con forza l’ottimismo della volontà. Il ministro Veronesi aveva promesso a gennaio del 2001 un vincolo che avrebbe dovuto destinare alla psichiatria il 5% della spesa sanitaria complessiva: una percentuale modesta se confrontata con quelle di altri paesi e sufficiente, però, ad aprire un discorso serio sul problema di cui parliamo qui: soprattutto se si
fosse riusciti a collegarlo alla progettazione di strutture residenziali organizzate in forma di comunità davvero terapeutiche e di assistenza psicologica e psicoterapeutica ai pazienti gravi e alle loro famiglie. Sarà possibile, dall’opposizione, insistere di nuovo su proposte di questo tipo arricchendole e trasformandole in una piattaforma concreta per la psichiatria italiana degli anni 2000? Sarà possibile, per l’opposizione, ricostruire un rapporto serio e costruttivo con i tecnici, con le famiglie e con gli utenti per rendere davvero utile e partecipata la sua proposta? Il vecchio Pci aveva una tradizione radicata ed una vera capacità di lavoro in situazioni di questo tipo. Qualcosa di simile potrà essere immaginato ancora da chi ha oggi la responsabilità di guidare le forze politiche che si riconoscono nell’ Ulivo? Che le cose si facciano davvero o no, che i diritti dei pazienti gravi siano riconosciuti o no negli anni che verranno dipende soprattutto da questo. Un’ultima osservazione vorrei fare, cara lettrice, a proposito della scuola in
cui suo figlio non è stato accettato. Per dirle che questo non accade spesso per fortuna, perché il mondo della scuola pubblica (non aziendale) è riuscito in questi ultimi 20 anni a dare risposte importanti per l’inserimento dei bambini e dei ragazzi con problemi nella maggioranza dei casi. Il che nulla toglie, ovviamente, alla gravità di quello che è accaduto a lei ed a suo figlio. Il che non deve essere, però, generalizzato: per dare il giusto riconoscimento a chi, a livello di scuola, è riuscito a dare, a volte, molto di più di quello che hanno dato i servizi cui il bambino o il ragazzo con problemi era ugualmente affidato
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