Una cultura dell’amore per conoscere davvero l’amore- l’Unità 1.03.04

Una cultura dell’amore per conoscere davvero l’amore- l’Unità 1.03.04

Marzo 1, 2004 2001-2010 0

Caro Cancrini,
mi sono chiesto come mai capiti così spesso che le donne dello spettacolo s’innamorino di calciatori, attori o capitani d’industria e quasi mai del portiere dello stabile o dell’impiegato alle poste. Secondo me
perché l’amore non è cosi cieco come lo si descrive ma anzi, almeno da un occhio ci vede benissimo. Le
chiedo questo perché mi ha colpito l’ultima trovata di Bonolis che dallo schermo di Domenica In invita il telespettatore a farsi avanti e provare a conquistare il cuore di tre splendide ragazze single del suo staff. Ciò mi colpisce perché nell’era della produttività a tutti i costi e dell’uomo capace di giocare ogni ruolo (soprattutto in politica), a me sembra che il ventre molle della società stia proprio nella crescente difficoltà nei rapporti interpersonali ed in particolare in quelli affettivi, lì dov’è più difficile fingere. Ne sono testimonianza il proliferare delle agenzie matrimoniali e le tante pagine web dedicate all’anima gemella. Io ho 31 anni; faccio ancora l’università, sono figlio di un operaio in pensione; sono senza un soldo; appassionato di politica; sono quello che si definisce “soggetto diversamente abile” perché privo dalla nascita di una mano. Dunque non m’identifico con il genere rappresentato dal calciatore. Voglio dire che se l’amore davvero fosse cieco, non dovrebbero esserci pregiudizi familiari, culturali, di classe che possono impedire il sorgere e il realizzarsi di un amore.
Per questa via tutti siamo potenziali fidanzati delle showgirls in questione? Non si rischia patinando tutto di non consentire ad ognuno di fare i conti con i propri limiti? Di contro riconosciuti i limiti ci si deve
accontentare o peggio rassegnarsi?
Certamente no! Ma come si superano? Per esempio l’handicap, considerato limite per antonomasia, come
può diventare opportunità per sé e per gli altri?
Lettera firmata

Le ragioni per cui le persone si scelgono per un rapporto d’amore sono state oggetto di molte riflessioni e di molte ricerche. Quello che sembra certo ai sociologi, dal punto di vista dei grandi numeri, è che gli incontri più probabili avvengono fra persone che hanno la stessa provenienza sociale ed economica. Le principesse sposano dei principi, le domestiche sposano dei domestici, i ragazzi per bene sposano delle ragazze per bene: nelle favole così come nella vita. Quelli che fanno più notizia sono, dunque, Cenerentola e il figlio del re o, più recentemente la ragazza che fa la prostituta e il miliardario di Pretty
Woman: storie che servono a mantenere viva l’illusione di un amore capace di superare qualsiasi tipo di differenza o di pregiudizio e di cui hanno bisogno, ovviamente, anche quelli che fanno scelte meno anticonformiste ma che debbono dire a sé stessi di aver voluto proprio quella persona e non un’altra per ragioni che attengono al mistero dell’amore, non alla valutazione concreta dei propri e degli altrui bisogni. Quello che accade in queste come in altre situazioni, infatti, è che gli esseri umani sanno abbastanza poco delle ragioni per cui fanno quello che fanno.
Dedicando molti dei loro ragionamenti (lo notò per primo un filosofo come Hegel) a trovare delle buone ragioni per spiegarlo (illusoriamente: a sé stessi e agli altri). La sovradeterminazione dei nostri comportamenti intuita e dimostrata, su linee parallele e complementari, da Marx e da Freud costituisce, in effetti, una delle grandi conquiste del pensiero umano degli ultimi due secoli. Sul piano concreto, essa corrisponde all’idea di una vita mentale inconscia, di cui prendiamo consapevolezza, in genere, solo nel momento in cui i nostri comportamenti concreti si discostano in modo troppo evidente da quello che avremmo voluto fare e di cui si è appropriata avidamente, in ques’ultimo secolo, la grande macchina della pubblicità. Persuasori occulti secondo la celebre definizione di Vance Packard, i pubblicitari sanno infatti che un messaggio subliminale (un’immagine troppo rapida per essere messa a fuoco dal cervello, per esempio, o un suggerimento buttato là mentre pensiamo ad altro) naviga senza problemi nella mente di un uomo normale condizionandone le scelte più di quello che riesce a fare il messaggio direttamente percepito. Arrivati ad una fase in cui la pubblicità è più importante della qualità di un prodotto ed in cui le tecniche pubblicitarie sono diventate fondamentali anche per promuovere un prodotto culturale o un personaggio politico, l’importanza di questa sovradeterminazione inconscia della condotta e della povertà dei ragionamenti con cui tentiamo dopo di spiegarla sta raggiungendo livelli sempre più allarmanti.
È all’interno di questo tipo di ragionamenti, credo, che è possibile trovare una risposta per le sue domande. Quando una “valletta” si innamora di un calciatore famoso e lui di lei, per esempio, il motivo forte del loro innamorarsi sta probabilmente nel fatto per cui lei ha bisogno di un uomo famoso come testimonial per la sua carriera e lui di una donna bella (o vistosa, che a volte è lo stesso) come trofeo e prova del suo successo. Stampa e televisioni più o meno specializzate nel gossip sono importanti, a questo punto, per aiutarli a realizzare questo tipo di aspettative di cui io penso seriamente che siano in gran parte inconsce e incapaci di dar vita ad un vero rapporto come ben dimostrato dalla abituale (ma comunque non obbligata) estrema rapidità delle rotture che seguono alla proclamazione delle nuove love stories. Il suggerimento implicito di una trasmissione come quella di Bonolis (e di molti altri) relativo all’idea per cui una donna bella o un uomo “importante” si conquistano all’interno di una gara più o meno divertente fa riferimento, dunque, proprio a queste aspettative non consapevoli: rivalutandole, in qualche modo, come passaggi necessari di un percorso di cui si suggerisce che è naturale e giusto ed in cui l’incontro d’amore è uno strumento importante di ascesa sociale. Dove il concorrente, cioè, è invitato a guardare verso l’alto, all’Olimpo dei semidei in cui si muovono i personaggi toccati dalla grazia e dalla popolarità (volti e voci televisive, giornalisti e presentatori, miliardari e campioni dello sport, gente che ha a che fare con il cinema o che è in grado di guidare una Ferrari) che vive in spazi riservati e protetti (le barche e le ville, gli aerei personali e i luoghi in cui solo in pochi possono fare il loro turismo d’èlite) ed a cui si riconosce la divina possibilità di promuovere al loro livello la persona di cui si innamoreranno. Se hai i mezzi per farlo (bellezza o astuzia, spregiudicatezza o fortuna) provaci, dice la trasmissione, e non perdere tempo intanto a guardare la gente da poco che hai intorno a te e che non sa, come te, guardare in alto.
In modo analogo, credo, vanno le cose per ciò che riguarda l’handicap. Un mondo in cui il mito celebrato ogni giorno è quello della perfezione e del successo basato sulla bellezza, sulla ricchezza o sulla notorietà, è un mondo che a livello inconscio accumula una diffidenza ed una tendenza ad evitarlo naturali verso colui che soffre di una qualsiasi, visibile, menomazione. Dando luogo a comportamenti che non sono apertamente ostili, abitualmente, per ragioni che attengono alle regole che comunque questa società si è data ma mettendo in moto, nei fatti, procedure informali di allontanamento e di esclusione terribilmente e stupidamente efficaci.
L’unico rimedio possibile in tanto dilagare di scemenze dall’Olimpo e dai suoi emissarii radiotelevisivi mi sembra, alla fine, un processo educativo centrato sulla persona.
Abbiamo bisogno, penso, di persone capaci di guardare con interesse critico e con affettuosa ironia al modo in cui la loro mente effettivamente funziona. Di una cultura riflessiva e anticonformista. Di silenzi e di pause fra una stimolazione e l’altra. Di gruppi amicali capaci di notare e di apprezzare le differenze. Di una coscienza chiara del fatto per cui quella di cui facciamo parte in quanto esseri umani è una grande famiglia. Di un atteggiamento naturalmente critico verso le nostre emozioni forti. Di una diffidenza profonda per ogni tipo di competizione non legata al gioco e per ogni tipo di soluzione violenta dei problemi. Di una ricerca paziente della pace e, nel nostro privato, di una cultura dell’amore: basata sulla curiosità e sul rispetto.

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