Quella felicità leggera come un passo di danza- l’Unità 03.11.03

Quella felicità leggera come un passo di danza- l’Unità 03.11.03

Novembre 3, 2003 2001-2010, interventi 0

Egregio dott. Cancrini,
oggi si tende a diffondere l’idea da parte di ciarlatani d’ogni genere che la «felicità» non scaturisca da una situazione di giustizia sociale o di equilibri fra le parti, bensì da una condizione interiore.
Anche se sostanzialmente sono d’accordo sul principio, non sono d’accordo che il fattore condizioni ambientali e giustizia sociale non determini una importante componente per il raggiungimento della agognata serenità. Non la chiamerei «felicità» che mi sembra un improprio «americanismo»; la «felicità» non èuna condizione stabile, così come non lo sono il giorno e la notte, la luce e il buio, il caldo e il freddo, la vita e la morte… va bene semplificare tutto per somministrarlo alle masse, ma non esageriamo o arriveremo presto anche noi a volere uno «Schwarzenegger for President».
Qui a proposito del concetto di «felicità» vorrei anche far presente che tutta la nostra tradizione anche «spettacolare» trae radici dalla tragedia greca, non che questo impedisse la satira, l’autocritica, o altri punti di osservazione della realtà, ma per favore dott. Cancrini, ritorniamo a dirci qualcosa oltre la soglia della bacchetta magica del lago o della fata dai capelli turchini!
Distinti saluti
Ada Mauri

Ho visto proprio in questi giorni, mentre riflettevo sulla sua lettera, un film leggero ma assai interessante. Girato in California, nella terra che oggi ha deciso di affidarsi allo Schwarzenegger di cui lei parla, «Prima ti sposo e poi ti rovino» propone un quadro ironico e malinconico del modo in ci vivono laggiù i ricchi di oggi, nel paese più potente del mondo. Chiusi nelle loro case e nei loro club esclusivi, protetti dai muri di recinzione e da siepi di guardie del corpo, centrati sulla competizione in cui è obbligatorio vincere accumulando ancora più soldi o più umiliazioni per l’avversario di turno, sulle cure di un corpo cui si deve a tutti i costi impedire d’invecchiare, sulla cocaina e su una forma sempre più consumistica e asettica di sfruttamento sessuale delle persone giovani e belle che cercano i loro soldi. Chiusi, soprattutto, in un cinismo freddo che sembra escludere la possibilità stessa di un discorso, di un comportamento che non accetti
come riferimento fondamentale quello legato al denaro, al suo potere assoluto, alla sua capacità di determinare, senza alternative o mediazioni, i livelli di vita delle persone. Il modo in cui questo tipo di vita sia antitetico a ogni idea intelligente di felicità è ben presente ai personaggi fondamentali del film che lo dichiarano più volte e poco vale che, in un finalino poco riuscito, essi riescano a basare sull’innamoramento reciproco una specie di rivolta o di superamento delle regole implicite da cui questo mondo è governato.
Quello che più mi ha colpito e mi ha fatto riflettere, del film, è l’ambiguità profonda del messaggio veicolato in contesti economici e sociali differenti da quello in cui esso è stato prodotto. Pensiamo, per rendercene conto, al pubblico dei paesi più poveri o a quella parte del pubblico dei paesi più ricchi che non si può permettere, neanche in prospettiva, esperienze meno eccessive ma qualitativamente simili a quelle dei ricchi
californiani. Un pubblico che sentirà soprattutto desiderio di imitazione di fronte a quel tipo di situazioni
e che avrà soprattutto più voglia di emigrare o di arricchirsi dopo aver visto il film. Un pubblico al cui interno si rinforzeranno anche, inevitabilmente, sentimenti e movimenti d’invidia e di odio verso quel gruppo di semidei che pretende di governare il mondo dall’alto della sua incapacità di vivere. Un pubblico che si sentirà rinforzato comunque dall’idea per cui la felicità si basa essenzialmente
sulla quantità di cose che si hanno,di beni di cui si dispone.
Assai difficile mi sembra, infatti, che un pubblico cui in quel mondo non è possibile entrare riesca a sentire sul serio la mancanza di felicità di cui soffrono quelli che hanno invece la fortuna o la sfortuna di farne parte. Il che ci porta cara Ada al punto cruciale della sua lettera: al tentativo, cioè, di ragionare sul concetto di felicità. Di cui possiamo dire intanto, ragionando sul film di Joel Cohen, due cose fondamentali: che esso non è necessariamente legato alla ricchezza e alla disponibilità di beni diversi, dalla bellezza alla ricchezza prima di tutto; che esso è invece legato alla disponibilità di questi beni in quella che è la cultura del nostro tempo, la mentalità prevalente delle persone, soprattutto di quelle che hanno poco e vorrebbero avere di più.
Un’indicazione completamente diversa viene da un altro film che è comparso sugli schermi in questi ultimi mesi. Al ragazzo triste che gli chiede «di che cosa dovrei sorridere? Io nella mia vita non ho niente» monsieur Ibrahim risponde lì, citando i versetti del Corano, che l’uomo non sorride quando ha le cose ma riesce ad avere le cose che vuole quando sorride. Sottolineando l’idea per cui la felicità è soprattutto equilibrio, armonia, capacità di essere protagonisti attivi, intelligenti, ironici della propria vita. La felicità secondo monsieur Ibrahim non dipende dall’esterno, dipende da quello che abbiamo dentro, dal modo in cui guardiamo il mondo e ci rendiamo capaci di entrare in rapporto con gli altri. Dalla capacità di accontentarsi di quello che abbiamo. Come insegnano oggi, in fondo, tante tecniche di rilassamento, di ricerca delle situazioni in cui ci si assorbe in se stessi, ci si libera del peso e della vanità dei pensieri. Il che le piace, mi pare, ancora meno se bene intendo il suo pensiero sui ciarlatani.
Un terzo modo di pensare alla felicità, cara Ada, è quello di chi ritiene che l’uomo abbia un compito da svolgere sulla terra e che la sua possibilità di essere felice abbia qualcosa a che fare con la sua capacità di riconoscerlo e di essere coerente con se stesso nel momento in cui concretamente agisce. Dal punto di vista cristiano, con la possibilità di sentirsi in pace con la sua coscienza nel rapporto quotidiano con la parola del Vangelo. Dal punto di vista della tradizione marxista e comunista, con la possibilità di pensare che la propria vita, le proprie scelte e le sofferenze che esse eventualmente hanno comportato sono state determinate dal desiderio di dare un contributo, piccolo o grande, al crescere della giustizia sociale, alla diminuzione degli squilibri economici e della miseria, materiale e morale, che ne è la conseguenza più tremenda.
Il paradosso cui si trova di fronte chi come me e, mi pare, come lei, si riconosce in questa idea della felicità è quello legato al fatto per cui, nelmondo così com’è oggi e, ancora di più, nel mondo così com’era ieri e l’altro ieri, una felicità piena e realizzata non può esistere perché troppe sono state e sono le ingiustizie e le violenze da cui il mondo è pervaso eperché non è possibile essere pienamente felici se ci si rende conto (o anche se si fa finta di non vedere) l’enorme quantità di sofferenza evitabile da cui si è circondati. Mentre felici si può essere, e molto, se si sente che il proprio modo di essere e di vivere tende a qualcosa di sano di giusto. Che la cura che si ha di sé e del proprio benessere non è culto di sé e di una impossibile felicità totale, ma amore per un essere umano che merita l’amore e l’attenzione che si deve a tutti gli altri. La felicità è, a questo punto, leggera come un passo di danza, provvisoria come una musica, densa e rapida come una poesia. Non cerca e non postula, come lei giustamente nota, una stabilità contraddittoria, in fondo, con l’idea stessa di felicità

PDF

About the author

admin:

0 Comments

Would you like to share your thoughts?

Your email address will not be published. Required fields are marked *

Lascia un commento