Parole non pillole- l’Unità 13.11.96
di Liliana Rosi
Medici di base impreparati, psichiatri «spacciatori» di farmaci: Luigi Cancrini riapre il caso-depressione
Si fa un gran parlare di depressione, a volte anche a sproposito. Ma nonostante ciò, la cura che molti psichiatri propongono è di fatto quella del silenzio. Il silenzio è la condizione nella quale viene messo colui al quale, invece di dare la possibilità di esprimere le ragioni della propria sofferenza interiore, si consiglia di ricorrere ad un rimedio immediato, ma infido: la pillola. L’accusa viene dallo psichiatra Luigi Cancrini nel suo ultimo libro «Date parole al dolore» (Frassinelli).
Professor Cancrini, ci sono alcuni psichiatri che per giustificare la cura farmacologica della depressione, annunciano l’imminente scoperta del gene della depressione. Che ne pensa?
Ci sono tipi diversi di depressione. La prima, quella che un tempo si chiamava nevrosi traumatica e che oggi si definisce disturbo di adattamento, è legata ad una difficile elaborazione di un lutto, di una perdita. La seconda riguarda quelle persone che hanno un conflitto significativo nella loro vita che non riescono ad affrontare e che occultano a loro stessi. Il conflitto viene rimosso e quello che emerge è la depressione, senza che la persona metta in relazione i due momenti. Dire che queste situazioni, tra le più frequenti, abbiano origini genetiche è come proporre che sia genetico finire sotto un tram. Il terzo tipo di depressione, che è legato ad un disturbo importante e stabile della personalità e che corrisponde clinicamente allo sviluppo di crisi o sul versante depressivo o su quello maniacale, sarebbe secondo alcuni studiosi di origine genetica. Una revisione attenta di questi studi non permette di considerarli altro che indizi. Esistono invece lavori importanti sulla struttura di personalità di questi pazienti e sulla possibilità di legare l’origine del disturbo ad una fase ben definita dello sviluppo psichico: sono le stutture borderline e sono le situazioni che con un lavoro psicoterapeutico approfondito, spesso di lunga durata, giungono a buoni risultati.
Il noto psichiatra Giovan Battista Cassano, la cui terapia farmacologica della depressione è molto reclamizzata e al quale va la riconoscenza di personaggi anche famosi, è convinto della familiarità della depressione.
Cassano è uno che parla a vuoto ed esprime un pensiero che ritengo assolutamente primitivo, privo
di qualsiasi scientificità. La prova di ciò sta nel fatto che tutte le cose che lui dice in televisione o sui giornali o che si trovano nel suo libro, non si ritrovano in nessuna pubblicazione scientifica. Una cosa è se io parlo ad un vasto pubblico di possibili utenti in nome di un’industria farmaceutica, un’altra è se propongo ad un consesso scientifico delle teorie sulla depressione come se si trattasse di un diabete. Quella che fa Cassano è una divulgazione di bassissimo livello.
Ciò non toglie che simili teorie abbiano una grandissima presa sulla gente. L’impressione è quella di trovarsi di fronte ad una vera e propria svolta culturale rispetto all’interpretazione che, ad esempio Franco Basaglia, dava della sofferenza psichica.
Si tratta di un incoraggiamento dei meccanismi difensivi dei pazienti. La gran parte dei depressi, come
dicevo prima, vive un conflitto che non sa affrontare e quindi rimuove. E per questo sta male. Le possibilità per uscirne sono due: andare da uno psicoterapeuta che segua un percorso nell’ambito del
quale il depresso può crescere; oppure andare da un medico che consiglia l’uso di farmaci. Questo medico si fida della forza sintomatica del farmaco, ma fa perno anche sul bisogno difensivo del paziente: aiuta la persona a staccare sempre di più i fatti della vita dallo star male, l’aiuta a non pensare, rinforzando il processo difensivo. Si tratta di una strategia vincente perché agisce sul sintomo allontanando il problema.
Tutto ciò, secondo lei, può essere legato anche ai ritmi accelerati della nostra vita? Meglio la pillola
di una lunga psicoterapia?
La cultura moderna è assai contraddittoria. Da una parte c’è sicuramente la fretta, ma dall’altra c’è
anche, ed è la forza della psicoterapia, la tendenza della persona a dare grande importanza ai propri
stati d’animo e ad accettare sempre di meno le costrizioni esterne.Il mio è un osservatorio particolare, ma sono molto colpito dalla quantità di persone che vengono da me dopo aver preso i farmaci per anni. Sono persone di tutte le età e di tutte le condizioni sociali e culturali.
Come si spiega allora la facilitàcon la quale gli psichiatri prescrivono gli psicofarmaci?
Fino a cinquanta anni fa moltissime di queste condizioni non venivano curate, così come non si dava molta importanza al problema del peso e della dieta. Era un tempo in cui le persone accettavano di più la differenza dei propri stati d’animo. Appartiene invece al tempo moderno la tendenza a controllare presto, a tornare rapidamente ad uno standard che non può discostarsi di molto né in alto né in basso. C’è, insomma una enorme domanda di aiuto. Medici di base e psichiatri hanno la responsabilità di orientare questa domanda. Per questo oggi è importante il dibattito su questi temi, perché bisogna aiutare le persone a non sbagliare porta.
Sono i medici di base, dunque, che svolgono un ruolo molto importante?
Enorme. Infatti l’industria farmaceutica utilizza i vari Cassano e i docenti universitari come veicoli di informazione per i medici di base.
Questo succede perché il medico di base ha una scarsa preparazione o perché è motivato da altri interessi?
Nella nostra Università la formazione medica non prevede la preparazione psicologica. Non prepara il futuro medico al colloquio, alla gestione del rapporto con il paziente. Il medico al quale si rivolge la persona con un problema di depressione non ha nessuno strumento in più di quelli che può avere un portiere o l’amico. Ciò nonostante ha la responsabilità di fare qualcosa. E se sul suo tavolo ci sono solo i depliant delle case farmaceutiche, ecco che arriva la prescrizione del farmaco. Penso che l’Ordine dei medici dovrebbe prendere sul serio questo problema. Negli Stati Uniti c’è una vera e propria specializzazione per i medici di famiglia che li addestra a mettere in primo piano la persona con i suoi problemi e ad immaginare il rimedio medico all’interno di questa cornice. Io quindi propongo una formazione psicologica, psicoterapeutica per tutti i medici di base.
Ci sono dei casi in cui la pillola fa bene?
Sicuramente i neurolettici nei pazienti con disturbi psicotici. Gli antidepressivi possono essere importanti nelle situazioni del terzo tipo di cui ho parlato. Servono ad aiutare la persona a muoversi se la crisi depressiva l’ha bloccata completamente. Quello che dovrebbe essere chiaro, però, è che il lavoro terapeutico vero comincia quando la persona si muove, quando si può ragionare con lei sulla struttura della sua personalità. In questo caso il farmaco è come l’aspirina per la febbre, è sintomatico, ma non è terapeutico.
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