…continuarono gli altri fino a leggermi matto…- l’Unità 09.12.02

…continuarono gli altri fino a leggermi matto…- l’Unità 09.12.02

Dicembre 9, 2002 2001-2010 0

Caro Cancrini,
ho saputo che hai iniziato un progetto di formazione con gli operatori dell’Ospedale Psichiatrico di Montelupo Fiorentino.
Mi sono chiesto, ha un senso quello che fai?
Abbiamo sostenuto in tanti, per anni, che anche questi ospedali psichiatrici andavano chiusi. Formare chi
ci lavora dentro non è un modo di sostenerli, di mantenerli in piedi?
Per quello che ne so, la proposta di legge di cui si discute oggi alla Camera prevede l’abolizione di queste
strutture. C’è un pensiero diverso dei Democratici di Sinistra e/o dell’Ulivo su questo argomento? Ci sono dati sul funzionamento di questi ospedali che permettano di ragionare in modo razionale su questo particolare tipo di problema? Qualcuno c’è che se ne è occupato studiando?
Vorrei molto saperlo perché una persona a me cara vive da tempo in uno di questi ospedali e perché non
riesco più a capire che cosa sia veramente successo nella sua vita e in quella di tutti noi e che cosa sarebbemeglio per lui oggi.
Lettera firmata

Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha pubblicato di recente i risultati di uno studio condotto da Vittorino Andreoli negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (O.P.G.) italiani. Sviluppato in termini di censimento, tale studio fornisce dati di estremo interesse sui 1195 maschi e sulle 87 donne presenti, il 12 marzo del 2001, nelle sei strutture di Aversa, Barcellona, Castiglione delle Stiviere, Montelupo Fiorentino, Napoli e Reggio Emilia.
Il sesso, prima di tutto, perché la prevalenza forte degli uomini propone una somiglianza molto forte con quella della popolazione carceraria e una differenza ugualmente molto forte con quella della popolazione «utenti dei servizi psichiatrici» dove le donne sono regolarmente di più. Proponendo subito l’idea per cui non è possibile stabilire un rapporto lineare fra devianza psichiatrica (considerata come causa) e reati (considerati come effetto).
L’età media, in secondo luogo, che è di 41 anni (il più giovane ha 19 anni) e molto inferiore, dunque, a quella delle persone che risultano ancora oggi internate nelle strutture psichiatriche residenziali. Proponendo l’idea di una popolazione con una speranza di vita ancora molto consistente e che meriterebbe, perciò, un investimento terapeutico particolarmente forte. Il dato successivo, quello relativo all’istruzione, è anch’esso di grande interesse. La quota delle persone che non hanno ultimato la scuola
dell’obbligo supera, infatti, il 40% dei reclusi. I laureati sono 13, quelli che hanno un diploma meno di 200. Ben al di sopra del 40% sono, ugualmente, le persone che non provengono da una attività di lavoro o di studio, vicini al 50% quelli che vengono da un lavoro dipendente non qualificato e solo 34 i professionisti. Il che vuol dire, in pratica, che la classe sociale di provenienza può essere considerata l’indicatore di rischio più rilevante, nella popolazione generale, in ordine alla possibilità di entrare un giorno in un O.P.G. In modo molto simile, anche qui, a quello che accade per la popolazione carceraria e in modo abbastanza dissimile, anche qui, per quello che accade nella popolazione di utenti in cura presso le strutture psichiatriche.
Schematizzando molto, viene utilizzato l’O.P.G. soprattutto per quella quota di popolazione carceraria che presenta anche dei disturbi psichiatrici, disturbi che erano evidenti prima della condanna (in una metà circa dei casi) o che si sono resi evidenti in carcere (nell’altra metà). Quella che non è facile ipotizzare sulla base di questi dati, invece, è l’idea per cui l’essere affetto da un disturbo psichiatrico aumenti in modo significativo la possibilità di commettere dei reati.
Quella con cui abbiamo a che fare in O.P.G. insomma non è abitualmente la complicazione delinquenziale dei disturbi psichiatrici più comuni ma la complicanza psichiatrica di persone che hanno commesso dei reati. Come ben dimostrato, peraltro, dai dati relativi alla diagnosi.
I disturbi psichiatrici più gravi, le psicosi schizofreniche cui più ragionevolmente si collega l’idea di una
follia che rende incapaci di intendere e di volere rappresentano meno di un terzo dei casi. Numericamente, sono poco più di trecento. Calcolando un’incidenza di circa uno a mille sulla popolazione generale sono 300 su 60.000 i pazienti schizofrenici che hanno commesso reati e si trovano in O.P.G. Ragionando sulla cronicità abituale del loro disturbo e sul turnover molto più basso che essi hanno nei confronti della «normale» popolazione carceraria, la conclusione cui si dovrebbe arrivare è quella per cui l’essere affetti da una malattia mentale grave come la schizofrenia non aumenta il rischio di andare incontro a un comportamento delinquenziale. Con buona pace degli stereotipi sulla pericolosità del malato mentale grave e dell’idea, oggi tanto diffusa in ambienti contrari alla legge voluta da Basaglia per cui la carenza di risposte a livello dei dipartimenti di salute mentale spingerebbe verso l’O.P.G. una percentuale molto alta di pazienti schizofrenici. Mentre quelli sicuramente sovrarappresentati sono invece i disturbi dell’area borderline: in forma di disturbo della personalità o di disturbo dell’umore (la vecchia
psicosi maniaco-depressiva) che tanto frequenti sono abitualmente in tutta la popolazione carceraria.
Un’ultima osservazione sui dati della ricerca riguarda la tipologia dei reati. Perché quello che viene da pensare quando si parla di gente reclusa in un O.P.G. è il peggio del peggio, una sequenza di criminali
irraggiungibili del tipo di quelli che piacciono tanto a chi produce ed a chi guarda i thrillers di cui
Hannibal the Cannibal di Anthony Hopkins rappresenta il personaggio (o la caricatura) finora più riuscita. E perché quello con cui ci si incontra, invece, è un insieme malinconico di poveri diavoli, di persone fragili, sbandate e più o meno gravemente deprivate dal punto di vista economico e culturale.
Pochi dei quali (non più del 10%) hanno commesso reati davvero gravi. Gran parte dei quali scontano
in O.P.G., sostanzialmente, la povertà delle risorse esterne alla struttura ed una speciale, paurosa difficoltà di adattamento: alla vita normale e a quella del carcere.
Sin qui i dati della ricerca di cui puoi chiedere copia, credo, al Ministero di Grazia e Giustizia. Che molto mi è stata utile in questo tentativo di incontrare, in qualità di formatore, la gente che lavora nel più popolato degli O.P.G. italiani e, attraverso i loro racconti, gli utenti di cui lì ci si occupa. Traendone impressioni forti di cui è giusto, credo, dare testimonianza.
Parlando della discrepanza forte che c’è, prima di tutto fra slancio, passione, professionalità degli operatori e povertà drammatica delle risorse su cui essi possono contare.
Il numero degli psicologi, degli assistenti sociali, degli educatori e degli infermieri dovrebbe essere moltiplicato almeno per 10 se si volesse trasformare una struttura deputata soprattutto alla custodia in
una struttura centrata su finalità di ordine terapeutico. Quello che occorre per muoversi in questa direzione, tuttavia, è un convincimento forte sul fatto per cui quelli che arrivano in O.P.G. non sono esseri inferiori da custodire in attesa di quella che Fabrizio De André cantava come «la morte pietosa» che li
avrebbe strappati ad una follia irraggiungibile e incurabile, ma esseri umani, più sfortunati degli altri,
che hanno il diritto di essere aiutati da parte di una società che, in passato, è stata molto ingiusta con loro. C’è una rivoluzione culturale da fare negli O.P.G., a mio avviso, basata sulla constatazione della possibilità di curare il male delle persone che arrivano lì dentro. Considerandoli esseri umani nella pienezza dei loro diritti: all’istruzione, alla salute ed al lavoro.
Parlando, in secondo luogo, della sensazione di lavorare, mentre gli operatori espongono le storie di questi pazienti, su storie normali, su storie del tutto analoghe a quelle con cui ci si incontra ogni giorno nelle comunità terapeutiche per tossicodipendenti, nel carcere o nelle strutture che si occupano in vario modo di pazienti psichiatrici più o meno gravi. Il reato che hanno commesso, il reato per cui stanno in O.P.G. si inserisce naturalmente nella storia della loro vita, è una manifestazione fra le altre di un disagio che lo precede e lo segue ma non si sarebbe mai determinato se qualcuno si fosse occupato di loro terapeuticamente (questo viene continuamente da pensare) e non si ripeterà se un lavoro terapeutico verrà davvero portato avanti. Poiché il reato esiste, tuttavia, ed ha conseguenze su terzi, quello che
a me sembra onesto notare è che dal reato e dalla ricostruzione degli eventi e della situazione che lo hanno reso possibile bisogna comunque partire per aiutare una persona che sta male a ragionare su di sé, a riprendere possesso della propria storia e della propria persona.
Anche la pena può essere importante in molti di questi casi, anche la reclusione perché un meccanismo difensivo forte è, in molti di questi casi, la tendenza a negare la gravità di quello che è accaduto, a
minimizzarlo ed a giustificarsi e perché far finta che nulla sia successo, perdonare solo perché la persona è disturbata sarebbe alla fine un modo di darle una patente di irresponsabilità, di allontanarla da se
stessa e dalla sua storia.
È soprattutto per questo motivo che io mi sento di condividere in pieno le conclusioni di Vittorino Andreoli sulla possibilità di sostenere che l’O.P.G. non va abolito.
Quella di cui c’è bisogno, infatti, è una riforma forte della sua modalità di funzionamento, un rinforzo
deciso della sua capacità di porsi come struttura di terapia. Il che può avvenire, ragionevolmente, attraverso una serie di provvedimenti non legislativi e relativamente semplici sintetizzati in questo modo dall’Autore della ricerca:

  1. Gli O.P.G. rimangono attivi come riferimenti previsti dalla procedura giudiziaria.
  2. Gli attuali sei Istituti vengono chiusi e si creano strutture enormemente più piccole a distribuzione
    regionale. In termini teorici gli attuali 1282 degenti vengono divisi in venti strutture di cinquanta soggetti ciascuna. La regionalizzazione ha enormi vantaggi proprio nell’ambito psichiatrico poiché permette una maggiore relazione con le persone (familiari, istituzioni comunitarie, volontariato), utili, anzi, indispensabili, a non isolare il soggetto. Isolamento favorito già dalla semplice distanza. Del resto è un vero assurdo che si regionalizzino gli Istituti penitenziari ordinari, si regionalizzino sanità e psichiatria e rimanga una distribuzione nazionale e casuale per gli O.P.G.
  3. Ciascun Ospedale giudiziario regionale («Ospedale di psichiatria forense») viene organizzato con il
    criterio dei primariati, con un responsabile dei medici e uno degli agenti di polizia penitenziaria preparati a svolgere, da soli oppure con personale infermieristico specializzato (psichiatrico), i compiti assistenziali. Si dovrà prevedere un organico secondo le nuove esigenze.
  4. Queste strutture devono diventare psichiatriche e mettere il punto di partenza operativa nella diagnosi e dunque nel collegare la pericolosità sempre all’interno della patologia, poiché deve dominare il dogma che la pericolosità psichiatrica si risolve solo curando il disturbo
    psichiatrico di base che la determina o la include come sintomo. Non sono luoghi della pericolosità ma di una psichiatria di forme che hanno la pericolosità come parte strutturale.
  5. Queste strutture favoriranno lo scambio di interessi e di collaborazione con la psichiatria del Sistema
    sanitario nazionale, sia sul piano del trattamento, sia su quello dello studio criminologico dei casi.

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