Dalla droga alla caccia, la tv non è il luogo del confronto- l’Unità 12.11.01

Dalla droga alla caccia, la tv non è il luogo del confronto- l’Unità 12.11.01

Novembre 12, 2001 2001-2010 0

In questi tempi di guerra, sembrerà strano che io scriva in merito ad una questione apparentemente banale, ma il mio caro Voltaire fece dire al suo Candide: «Il faut cultivier bien notre giardin» (bisogna coltivare bene il nostro giardino) ed in questo, proprio gli americani ci hanno dato una grande lezione: la vita non può fermarsi per colpa del fanatismo religioso, essa continua e deve continuare.
Premesso questo, veniamo al punto che desidero esporre: la necessità di abrogare l’articolo 342 del Codice civile: quella legge ovvero, emessa durante il regime fascista con il dichiarato intento di incentivare i cittadini all’uso delle armi, permettendo ai cacciatori di entrare nelle proprietà private anche contro il volere del proprietario.
Tale legge viola quindi il principio dell’inviolabilità della proprietà privata sancito dalla Dichiarazione universale dei Diritti umani ed ha provocato una situazione di anarchia nella campagna dove oramai vige la «legge» di chi ha il fucile più potente e pochi scrupoli nell’usarlo.
È stato già riconosciuto a livello europeo ed internazionale che tale legge viola uno dei più elementari diritti umani e ancora tale legge continua ad esistere: noi aspettavamo che gli scorsi governi dell’Ulivo abrogassero tale legge ma così non è stato e di questo sono rimasto molto male, così per questo ed altri motivi alle scorse elezioni ho lasciato scheda bianca perché a me non è venuta nessuna utilità dall’Ulivo al governo e quindi non vedo perché dovrei ritrovare in futuro una coalizione che non mi ha dato nulla, a meno che la coalizione progressista non riparta con forza e senza paura sulla strada della riforma dello Stato e delle sue leggi, recuperando altresì il proprio laicismo, presentandosi alle prossime elezioni con un programma elettorale fortemente propositivo e con grandi impegni sulla garanzia dei diritti umani e delle libertà civili nel nostro paese: cose di cui qui in Italia vi è proprio bisogno.
David Diani

Sono perfettamente d’accordo con lei. Sul tema della caccia, la sinistra al governo ha pagato sempre i suoi tributi al partito dei cacciatori. È accaduto nelle regioni rosse, occasionalmente o stabilmente, è accaduto a livello nazionale. Verità è infatti che, su questo tema, gli elettori e gli iscritti del vecchio Pci e dei partiti che ne hanno raccolto l’eredità hanno idee diverse. Il risultato concreto, nel momento delle decisioni, è quello delle forze contrarie che si annullano.
Il problema, come lei nota giustamente, ha caratteristiche più generali. Lo ha sintetizzato efficacemente qualche anno fa Moretti supplicando D’Alema – uomo di governo – perché dicesse «qualcosa di sinistra». Posti di fronte alla complessità del reale, i governi di sinistra hanno oscillato, spesso, certo fra spinte contraddittorie. Facendo meno di quello che potevano fare. Onestamente tentando di ascoltare – accontentare tutti però ed evitando di prendere posizioni che potessero essere interpretate come posizioni di parte nel momento in cui venivano prese nel nome di tutti. Molto spesso arrivando, così a scontentare tutti: perché tutti vogliono decisioni che stiano chiaramente dalla loro parte e nessuno (quasi nessuno) si accontenta, invece dei risultati di una mediazione.
Avendo avuto un ruolo (secondario e mai vistoso ma comunque dotato di un certo potere e di una certa responsabilità) in questa squadra di governo (guidata all’inizio da Prodi e poi da D’Alema e da Amato) vorrei proporle, con questa mia risposta, i dati di una esperienza reale vissuta all’interno di un problema particolare: quello che riguarda la droga e la tossicodipendenza. Rappresentandole la difficoltà di dire una cosa che suoni davvero per tutti come «una cosa di sinistra» in un campo come questo e ragionando, successivamente su quello che potrebbe essere, a mio avviso, il compito vero di un governo della sinistra.
In questo e in altri settori.
Una delle questioni più controverse in tema di terapia delle tossicodipendenze riguarda l’uso di farmaci sostitutivi, dal metadone all’eroina. Con una violenza che ha sconfinato spesso nel fanatismo, i sostenitori dell’uso terapeutico di eroina ne hanno fatto una questione di principio, di diritto alla sostanza da parte di chi ne ha bisogno. Con una violenza altrettanto ingiustificata, i sostenitori dell’intervento drug-free (senza droghe) hanno sostenuto che l’uso di farmaci sostitutivi è un modo di impedire le terapie vere, distribuendo una droga di Stato e condannando il tossicodipendente a restare tale. La cosa più importante dal nostro punto di vista, però, è che posizioni estreme ed opposte di questo tipo sono state e sono sostenute da persone che si richiamano tutte alle grandi idee della sinistra.
Accusandosi reciprocamente di tradire. Creando un imbarazzo grave in chi ha responsabilità di governo ed è costretto, per le funzioni che svolge, a tenere conto dell’opinione di tutti. Assumere, come si è tentato di fare, una posizione per cui l’utilizzo di farmaci sostitutivi è utile nella misura in cui «riduce il danno» preparando il terreno, tutte le volte in cui ciò è possibile, ed una terapia più ambiziosa ha significato assumere una posizione che chiedeva di essere spiegata con pazienza. Che chiedeva interlocutori attenti. Che è stata trasformata dai giornali e dalle televisioni, nei giorni della conferenza nazionale di Genova, in uno scontro (intervento) fra ministri favorevoli e contrari all’eroina.
Con una ricaduta immediata, a sinistra, fra operatori che si schieravano dalla parte della Turco e operatori che sposavano le tesi attribuite impropriamente a Veronesi.
Il problema, come nel caso della caccia, è quella di una situazione in cui, per una antica tradizione della sinistra colui che propone idee su un tema controverso lo fa dall’interno di una convinzione per cui le sue non sono opinioni ma verità direttamente collegate a grandi opzioni di principio. Invece di dire «così sarebbe meglio», l’uomo di sinistra preferisce dire «così è più giusto». Dando connotazioni morali alla posizione sua e a quella dell’avversario: sulle grandi questioni (la guerra di questi giorni) e su quelle piccole (la caccia e il metadone).
Quello che si dovrebbe fare, a mio avviso, per superare questo tipo di «impasse» è un tentativo forte di
allargare la discussione. Quando Piero Sansonetti scrive sull’Unità di giovedì 8 novembre che la grande maggioranza dei rappresentanti parlamentari dell’Ulivo ha detto sì alla entrata in guerra dell’Italia anche se, probabilmente, gli umori della base, a sinistra, non erano questi, la questione che viene così
rappresentata è una questione cruciale. Che rapporto c’è, infatti, fra volontà espresse dai rappresentanti eletti e pareri delle masse che essi dovrebbero rappresentare? Che possibilità ci sono, per gli elettori e per i militanti, di dire la loro opinione ai loro rappresentanti?
Un dibattito che si svolge tutto sulla televisione e sui giornali è un dibattito riservato a chi ha il potere di comparire in televisione o di scrivere sui giornali. Il malumore della gente che si sente di sinistra, a mio avviso sta in gran parte qui: perché la tendenza alla delega e alla identificazione con il capo è più naturale a destra e perché un elettorato progressista chiede livelli di partecipazione alle scelte molto maggiori di quelli concessi oggi da chi è chiamato a rappresentarlo: dal governo o dall’opposizione.
In tema di caccia, di metadone o di altro, quello di cui si sente il bisogno è uno spazio di dibattito reale e pubblico dedicato all’approfondimento delle questioni. Se ne dovrebbe uscire con dei documenti chiari e vincolanti. Ad essi lealmente si dovrebbero attenere gli eletti coordinati fra loro da un organismo che si dovrebbe occupare di costruire gli spazi per una discussione reale su temi concreti e di sorvegliare il rispetto delle decisioni cui si è arrivati insieme.
A meno che non si sia portati a credere che gli elettori devono solo votare scegliendo tra persone perbene e persone per male e affidando completamente, poi, alle valutazioni etiche e politiche, programmatiche e scientifiche, di chi fa il politico per professione.

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