Il tarlo della democrazia evoluta: il cittadino cullato dalla pubblicità- l’Unità 27.05.02

Il tarlo della democrazia evoluta: il cittadino cullato dalla pubblicità- l’Unità 27.05.02

Maggio 27, 2002 2001-2010 0

Caro Cancrini,
la conosco e la leggo e stimo da anni, non solo per la mia anagrafe, ma per la mia partecipazione attiva ai
problemi dell’handicap minorile e per aver fatto parte della “Associazione per la lotta contro le malattie mentali”, che ha fiancheggiato, in una appassionata stagione, l’azione degli amici basagliani in una battaglia, che ha dato esiti positivi. Una battaglia tuttora contestata da noi, che viene valorizzata in Francia ed in altri paesi.
È con intenso interesse e con letizia politica che ho dedicato particolare attenzione al suo articolo su
l‘Unità del 29/04 dedicato alla personalità del leader politico, tematica tradizionalmente affrontata dai media e dai cittadini con strumenti esclusivamente politici.
Penso che la valutazione del politico in termini umanistici, prima ancora che del suo ruolo nell’ambito del potere, costituisca un elemento di fondamentale importanza pubblica e di incisività in quanto, per consuetudine, esso in tale vaglio è argomento di conversazione privata. Ciò sposta i termini della questione dall’ area unilateralmente politica a quella più inconsueta che riguarda l’elettore, soggetto atto a promuovere il leader col proprio consenso, spesso condizionato dai moti interni da «idola» di baconiana conoscenza, e privo di strumenti analitici della psicologia.
La questione così impostata assume aspetti più propriamente intrinseci alla attitudine del distinguere, sottratta alla semplice moralità dell’automatismo di simpatia estemporanea e dotata di critica matura per la
democrazia del Paese.
Giustamente Lei afferma che la prevenzione per difendersi da un leader politico che narcisisticamente sia
enfatizzato da quella magica e infantile “grandiosità del Sé”, pericolosa per la gestione del bene pubblico,
sta nelle istituzioni e nella divisione dei poteri.
Il nostro Paese si trova in queste condizioni e il cittadino italiano in quella della capacità critica, nella sua
grande generosità, per saper evitare consensi storicamente già riconosciuti pericolosi? E inoltre l’Europa a
questo proposito può svolgere un ruolo di sostegno formativo? Poiché si tende a parlare della qualità del leader attraverso le sue azioni politiche e meno di quelle del cittadino, che fragile di fronte alla problematica
della distinzione, finisce per essere manipolato e diventa subalterno al leader narcisista? Mi rendo conto
che lo stacco fra tali quesiti, che hanno carattere personalistico, e la prassi concreta dell’azione democratica
del cittadino, è assai accentuato. Voglia scusarmi e accogliere questa occasione come espressione di sincera
stima sempre silenziosamente conservata.
Aldo Sola
Vigliano Biellese,
12 maggio 2002

Il problema che lei pone è complesso e fondamentale. Capire e spiegare il perché della facilità con cui un leader narcisista, più o meno patologico, raccoglie consensi tanto larghi chiede necessariamente, infatti, di interrogarsi sulle persone che glielo danno. Cosa succede a questo livello?
L’attenzione viene portata abitualmente e, in fondo, naturalmente sulla patologia di quelli che gli stanno
più vicini, affezionati o furbi, servili o arrampicatori. Non molto si riflette, invece, sulle radici patologiche di
un consenso più distratto, quello che si manifesta con il voto o con l’indifferenza, con l’accettazione passiva di un ordine legato alle promesse e al carisma di un individuo, piuttosto che sulle radici solide della democrazia.
L’argomento, invece, merita un’attenzione forte. Si rifletta, per rendersene conto, sul modo in cui, in
circostanze sociali e politiche molto diverse, Hitler, Mussolini e Stalin sovvertirono, mettendo in piedi un vero e proprio culto della loro personalità; sistemi in cui gli individui avevano la possibilità di contare su strutture rappresentative che si reggevano sul loro consenso. In tutti e tre questi casi, infatti, il consenso era diffuso e largamente maggioritario: in popolazioni che rinunciarono, senza porre difficoltà particolari, al loro diritto di scegliersi dei capi. Come se fossero esistiti allora, in Germania, in Italia ed in Russia, gruppi enormi di persone che si sentivano sollevate dall’idea di poter affidare ad altri scelte faticose di ordine economico, culturale e politico. Fino al momento, ovviamente, in cui il disastro provocato dai dittatori si è reso evidente. Con code importanti anche allora, però, perché la nostalgia di personaggi inequivocabilmente condannati della storia è viva ancora oggi. Da noi ed altrove.
Nel suo romanzo più bello, “I fratelli Karamazov”, Dostojevskji propone, per bocca di Ivan, la leggenda del Grande Inquisitore. Tornato in vita ai tempi dell’Inquisizione, Gesù viene arrestato e condannato di nuovo a morte. Perché, gli dice il Grande Inquisitore che lo ha riconosciuto e gli parla, quello che il Vangelo insegna e che l’uomo non può sopportare è il peso della libertà. Se tu vuoi che le masse ti accettino, che
credano in te, gli dice, devi capire che l’unico modo di annunciare il regno dei cieli è il nostro, quello di
un cattolicesimo che entra con norme precise nella vita degli uomini.
Dicendo loro ciò che è giusto e ciò che non lo è. Liberandoli dalle responsabilità di pensare e di decidere.
Chiedendo loro di accodarsi, di seguire il tuo discorso: senza preoccuparsi del fatto che lo capiscano davvero.
L’amarezza di Ivan che parla dei misteri e delle ambiguità della religione può applicarsi abbastanza bene a
quella di chi riflette oggi sul problema della democrazia nei paesi «evoluti» dell’Occidente. Vinta una battaglia giusta sul suffragio universale e sulla libertà d’associazione e di rappresentanza politica, i sostenitori del progetto democratico si scontrano oggi con la constatazione della povertà sostanziale delle motivazioni alla base di opzioni politiche sempre meno definite dal punto di vista strategico. Con una conseguenza importante dal punto di vista pratico perché accettare l’idea per cui la ricerca di
voti si sviluppa su linee sostanzialmente analoghe a quelle utilizzate nella ricerca di un compratore, significa nei fatti spostare l’attenzione di chi fa politica e cerca consensi dai contenuti alle forme della comunicazione, dal pensiero del leader al suo aspetto, dalla sua capacità di esprimersi al suo look.
Proponendo problemi forti a chi non se ne accorge e non lo accetta.
Con un rischio concreto di emarginazione delle riflessioni critiche e delle posizioni più evolute. A che cosa corrisponde tutto ciò in termini psicologici non è facile dire. Anche se sembra evidente, a me, che l’elemento chiave di questa sgradevole situazione va ricercato non solo e non tanto nella povertà delle informazioni disponibili quanto nella povertà delle motivazioni con cui alle informazioni ci si avvicina. In una generalizzata e grave, a mio avviso, immaturità delle persone che non riescono a credere fino in fondo all’importanza di ciò che fanno quando votano o esprimono un giudizio politico. Che si rifugiano nella passività perché non hanno voglia di impegnarsi sul serio. Che si appoggiano sugli altri, sulle ricette, sulle promesse e sui gusti degli altri perché alla fine non riescono ad accettare la fatica dell’essere protagonisti.
C’è d’altra parte, in una tendenza come questa, nella sua forza e nella facilità con cui essa si diffonde, tutta la complessità delle scelte con cui l’essere umano si confronta nel momento in cui la sua mente lo rende capace di (lo costringe a) scegliere fra il suo interesse, personale e di gruppo,
e un interesse più generale (oggi, per esempio, la solidarietà con persone che vengono da un altro mondo; ieri, per esempio, la solidarietà con le classi oppresse). La capacità di scegliere in una direzione sentita come più nobile o più «giusta» corrisponde, infatti, ad un livello di sicurezza interna e di maturità personale assai elevato o, in altri casi, alla pressione dei sensi di colpa nei confronti dei meno fortunati (e della propria aggressività). Stringersi intorno all’interesse immediato proprio o del proprio gruppo è un modo di rassicurarsi, invece, legato ad un vissuto di insicurezza, di precarietà, di «qualcosa che ti manca». Un vissuto che rinvia ad insicurezze e a precarietà antiche, sperimentate, forse, nell’infanzia.
Tutto ciò che possiamo dire oggi, in effetti, sulle ragioni e sulle origini lontane della passività con cui
quantità purtroppo grandissime di persone si assestano intorno alla follia di un leader narcisista è che essa corrisponde al bisogno, tenero e naturale, del bambino che si appoggia ai suoi genitori. Rispondergli con affetto è relativamente facile. Aiutarlo a liberarsi del suo bisogno di essere protetto lo è molto meno soprattutto in tempi dominati dal consumismo, dalla ricerca di possesso immediato e onnipotente di beni di consumo, dell’ossessività dei bisogni di sicurezza e di protezione. Rendendo sempre più rara la crescita di persone in grado di pensare e di scegliere dopo aver pensato.
Sono ragioni economiche ben riconoscibili quelle che spiegano l’orientamento immediato, precedente al lavoro del pensiero, dei processi decisionali.
Il perché dello sviluppo delle dittature di ieri e di quelle, sempre possibili, di domani, sta tutto qui, nella
possibilità di solleticare, accarezzandoli, interessi maggioritari immediati. Preparando disastri, spesso, che
solo una ragione ben utilizzata da tutti (o da molti: le minoranze che ragionano ci sono sempre state) avrebbe potuto impedire.

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