Caro Cancrini- l’Unità 28.04.2003

Caro Cancrini- l’Unità 28.04.2003

Aprile 28, 2003 2001-2010, interviste 0

Caro Cancrini,
molti operatori sono partiti, come noi, dalle Comunità Terapeutiche ed hanno attivato programmi di prevenzione alla tossicodipendenze rispondendo alle richieste delle scuole del territorio. Dalla metà
degli anni Novanta abbiamo cominciato ad attivare programmi destinati non più alla generalità della popolazione, ma a più ristretti e specifici gruppi giovanili. Siamo partiti dall’evidente inutilità della distrubuzione, a pioggia, di materiale informativo sulle sostanze e siamo approdati a metodi che mettono al centro dei cambiamenti le relazioni tra le persone e le loro risorse. Abbiamo ipotizzato che qualsiasi cambiamento degli stili di vita (ed anche degli stili d’abuso) non potesse essere imposto. Quest’attenzione al rapporto tra le persone presuppone, negli interventi preventivi, una selezione del target, una moltiplicazione dei luoghi e dei contesti e, soprattutto, una continuità ed una territorializzazione degli interventi.

Con questo spirito, nel 1997, abbiamo applicato le tecniche di Peer Education (educazione tra pari) in un
programma di prevenzione sulle nuove droghe denominato «Mosaico» finanziato dal Comune di Roma e poinel programma denominato «Base» finanziato nel 1998/99 dalla Regione Lazio. In estrema sintesi l’Educazione tra Pari è un metodo, di formazione ed informazione, rivolto ad un specifico gruppo di persone su cui si «investe» e si «scommette» sulla capacità di disseminare tra i loro coetanei/conoscenti le informazioni e le consapevolezze apprese. L’Educazione tra Pari può diventare ancora più efficace se si ispira ai presupposti concettuali dell’Empowerment (questo, forse abusato, termine inglese indica un insieme di conoscenze, competenze, modalità relazionali che permettono ad individui e, soprattutto, comunità locali di porsi obiettivi, di elaborare strategie per raggiungerli valorizzando ed utilizzando risorse esistenti).

Di recente, abbiamo applicato le tecniche della Peer Education nel Centro di Pronta Accoglienza Diurno e
Notturno «Aldea» finanziato dall’Agenzia Comunale per le Tossicodipendenze del Comune di Roma. Si
tratta del tentativo di attivare persone dipendenti da sostanze ed in gravi condizioni di marginalità che vivono per lo più in strada, che sono spesso infarcite di pregiudizi, scarse conoscenze, pericolose abitudini. Tutte le ricerche, a partire da quella di Mosaico, indicano che la famiglia è l’istituzione che più di ogni altra ha il senso e significato per i giovani, ma la grande maggioranza dei ragazzi che hanno chiesto aiuto a causa di disturbi e/o problemi collegati all’uso di sostanze stimolanti si sono confidati con gli amici e pochissimi si sono rivolti ai servizi. Appare urgente adeguare le strategie preventive ed aumentare e diffondere i programmi d’educazione tra pari che permettono la diffusione di messaggi preventivi ed informativi tra i soggetti che più di ogni altro sono a disposizione dei giovani per un consiglio ed un primo orientamento. In questo clima abbiamo accolto con molto interesse la pubblicazione del libro «Peer Educator club» a cura di M. G. Cancrini e L. Gulimanoska, Scione Editore Roma, per il rinnovato interesse del mondo universitario ad approcci e modelli innovativi.

Mi piacerebbe che si potessero mettere in comunicazione le esperienze degli operatori con il mondo accademico e la ricerca. Abbiamo grandissimo bisogno di misurare le nostre azioni anche perché le evidenze scientifiche d’efficacia sarebbero l’unico caposaldo cui poter ancorare approcci e metodologie sottoposti, in questi ultimi tempi, a continui attacchi.
Mario German De Luca
Centro di Pronta Accoglienza
Aldea Presidente Associazione
Onlus La Tenda

La scommessa portata avanti dal gruppo coordinato da Grazia Cancrini di cui si parla in Peer Educator Club è importante da più di un punto di vista. Perché si tratta di un libro scritto dagli studenti, prima di tutto. Perché propone, in secondo luogo, il racconto chiaro, dettagliato, preciso, di un modo di lavorare che modifica profondamente la strategia su cui ci si basa abitualmente quando si tenta di fare prevenzione. Sostituendo la lezione ex cathedra con la discussione fra pari, il fluire unilaterale delle informazioni da chi sa (o dovrebbe sapere) e chi non sa (o dovrebbe non sapere) con lo scambio delle
esperienze, delle opinioni, delle riflessioni.
Quanto ciò sia importante se la prevenzione riguarda temi opinabili e su cui le posizioni assunte da individui che appartengono a generazioni diverse divergono profondamente è immediatamente rappresentata nell’introduzione. Parlando del senso di frustrazione e di imbarazzo provato dal docente che deve «spiegare» le droghe a una folla di ragazzi che guardano al problema da un punto di vista
diverso dal suo e da quello dei docenti che l’hanno chiamato, Grazia Cancrini sottolinea il modo in cui situazioni di questo tipo non permettono un reale fluire dell’informazione.
Sommerso dal pregiudizio, il discorso del docente non arriva ai ragazzi. Frenato dalla timidezza e dalla sfiducia, quello del ragazzo resta dentro di lui. L’idea per cui un gruppo di persone giovani possa sollevare, classe per classe, gruppo per gruppo una discussione fra pari elimina di colpo questo
tipo di difficoltà. Liberi dal confronto con adulti di cui non si fidano e di cui pensano di non (poter) condividere le posizioni, gli studenti parlano, raccontano, si espongono in prima persona. Confrontano le asperità delle posizioni individuali, le teorizzazioni giustificatorie e le paure esagerate così frequenti nell’età adolescenziale con la saggezza naturale del gruppo.
Misurano il valore delle loro opinioni, le capacità che hanno o che non hanno di interessare gli altri. Suggeriti da uno che è uno di loro, che non impone e non pretende nulla, quelli che emergono con una loro naturale semplicità sono il dubbio relativo ai rischi della trasgressione basata sull’uso delle sostanze da parte delle persone meno equilibrate, la povertà sostanziale delle esperienze che esse possono offrire alle persone che lo sono un po’ di più, il grande imbroglio tessuto dai trafficanti a danno dei consumatori. Esperienza formativa nella misura in cui aiuta ad elaborare in un insieme coerente e condiviso tutta una serie contraddittoria di informazioni acquisite in modo confuso e frammentario, la serie di incontri portata avanti da un educatoreche ha un’età simile a quella degli studenti cui si rivolge permette loro di assumere posizioni più meditate e più consapevoli di fronte all’offerta di droghe con cui si stanno confrontando o con cui si stanno per confrontare. Smitizzando gli eroi negativi e la ricerca di consenso basata sulla loro capacità di sfidare gli adulti e le lororegole, riportando il problema dei suoi comportamenti e delle sue scelte al singolo: responsabile di sé e del suo destino.
Il modo in cui questo modo di lavorare può incidere su quella che mi sembra la tua preoccupazione fondamentale, caro De Luca, va anch’esso sottolineato. Mettere in comunicazione le esperienze degli educatori con il mondo accademico e con quello della ricerca sarebbe particolarmente importante in un campo caratterizzato proprio dalla sostanziale impreparazione di quelli che sono i detentori del sapere più tradizionale. Pochissime indicazioni utili sono venute dal mondo dell’università e della ricerca nei 35
anni in cui ci si è interrogati, in Italia, sul tema della tossicodipendenza.
Tutto o quasi tutto quello che sappiamo sulla prevenzione delle tossicomanie e sul trattamento dei tossicomani viene dagli operatori che hanno affrontato il problema sul campo, nei servizi pubblici e in quelli proposti dal privato sociale. Le Università, che dovrebbero essere un luogo consacrato, per definizione, alla raccolta, alla valutazione e alla diffusione del sapere hanno semplicemente rifiutato questa funzione. Nulla su ciò che dovranno fare con le dipendenza da farmaco, da gioco o da altro viene insegnato ai medici (che anche di loro dovranno occuparsi) nel corso dei loro sei anni di studio universitario. Nulla è stato fatto, ugualmente, dal Ministero della Pubblica Istruzione per organizzare corsi di specializzazione sul tema delle dipendenze.
In modo ancora più grave, nessuna delle nostre Università ha mai provato a mettere in piedi, seguendo il modello di quelle spagnoli o francesi, tedesche o americane, masters dedicati a questa difficile materia. Osservato dal punto di vista delle Università italiane, sostanzialmente, il problema delle dipendenze non esiste. Va affrontato altrove. Non è oggetto di studio né di insegnamento. Con rare eccezioni, di cui questo libro è una bella testimonianza.
Vale la pena di riflettere seriamente, credo, sul solco profondo che si sta scavando, in questo ed in altri settori della pratica socio-sanitaria, fra Università e luoghi in cui matura e cresce una nuova cultura degli operatori. Immaginando di parlare con un giovane che aspira a lavorare con i tossicodipendenti o con i minori vittime di maltrattamento, con gli autori di crimini sessuali o con gli alcolisti, con i pazienti psichiatrici o con gli adolescenti in difficoltà, con gli anziani o con i portatori di malattie incurabili, l’unica cosa certa che gli si potrebbe dire è che l’Università serve per lui al solo scopo di dargli un titolo. Il «come si fa», le cose che realmente si fanno per corrispondere ai suoi obiettivi professionali le imparerà, gli si dovrebbe dire, dopo l’Università e, soprattutto, fuori dell’Università. Nelle scuole di psicoterapia e nei servizi, pubblici e del privato sociale. Dove ci sono persone in grado di dirgli qualcosa, per diretta esperienza, sulle cose che lui vuole imparare.
Punto di crisi senza ritorno degli assetti consolidati del sapere, il tema della dipendenza e quello più generale delle buone pratiche di lavoro sociale maturate sul campo da operatori appassionati, intelligenti, capaci di insegnare e mettere in piedi scuole, propone in modo singolarmente provocatorio la vecchiezza un po’ assurda di istituzioni accademiche e professionali organizzate intorno a un sapere fittizio, utile solo a giustificare lo stipendio e il potere di chi le guida. Chiede una vivacità di riflessioni e di proposte da affidare soprattutto ai più giovani. Quelli che hanno avuto la fortuna di fare, magari, l’esperienza di un Peer Educator Club.

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